Non esistono ragazzi cattivi
È la tesi di base del film "La città dei ragazzi" (1938), diretto da Norman Taurog con protagonisti Spencer Tracy e Mickey Rooney. La situazione oggi.
È la tesi di base del film "La città dei ragazzi" (1938), diretto da Norman Taurog con protagonisti Spencer Tracy e Mickey Rooney. La situazione oggi.
Sapreste dire da dove viene la frase del titolo? È la tesi di base del film La città dei ragazzi (1938), diretto da Norman Taurog con protagonisti Spencer Tracy e Mickey Rooney. Il film è liberamente ispirato alla storia vera di Edward J. Flanagan, un sacerdote che dedicò la vita ai ragazzi orfani o abbandonati. Nel film padre Flanagan (Spencer Tracy) è mosso da una certezza, cioè che non esistano ragazzi cattivi e che la delinquenza giovanile sia il risultato di una serie di circostanze avverse, il tentativo di sopravvivere.
Facciamo un salto di 85 anni e vediamo qual è la situazione oggi.
Ho parlato con la responsabile nazionale per la Giustizia Minorile ed è emerso un quadro molto positivo e incoraggiante. Avete mai sentito parlare di area penale esterna? È una realtà alternativa alla detenzione; un progetto di reinserimento dei ragazzi in società con attività di vario tipo da svolgere al di fuori di un istituto. Il colpevole di reato affronta quella che si chiama la messa alla prova, che può consistere in attività socialmente utili, di volontariato, di assistenza negli ospedali, progetti culturali con la scuola oppure in collaborazione con enti privati.
La messa alla prova dura mediamente da 9 mesi a tre anni e ha un valore penale riparativo. Una volta concluso questo periodo, il reato è penalmente estinto; il minore, o giovane adulto, ha la fedina penale pulita, è un individuo nuovo.
Il dato edificante in tutto ciò è che NON C’È RECIDIVA, viene recuperato il 100% dei ragazzi che scontano la pena in area penale esterna.
Ho sempre pensato che i ragazzi colpevoli di reato venissero generalmente da situazioni estreme, di povertà o di degrado (come ci mostra anche il film di Taurog), mentre oggi la situazione sembra diversa: molto spesso questi ragazzi hanno alle spalle famiglie borghesi o benestanti. Il grido di dolore che un atto di violenza ci segnala, di rado lamenta una mancanza materiale, il disagio è molto più profondo: una disattenzione, il non sentirsi compresi da chi ci è vicino, il sentirsi fuori posto o magari il tentativo disperato di reagire a una violenza.
Voglio raccontarvi la storia di Diego (nome di fantasia), un ragazzo nato e cresciuto in una famiglia apparentemente normale (ammesso che normale significhi qualcosa), curioso, intelligente e socievole, i genitori medici, una casa accogliente nel centro di Roma, nessun problema particolare con compagni di scuola o professori, buoni voti e buona condotta.
Quando aveva sedici anni Diego fu condannato per l’omicidio dello zio. Durante il processo preliminare emerse che, da alcuni anni, lo zio abusava sessualmente di lui. Con tutte le attenuanti del caso -poiché Diego non era un individuo socialmente pericoloso, non ha commesso il fatto in preda a un raptus, ma per tentare di salvarsi non vedendo altra via- aveva comunque un omicidio da scontare. Parallelamente a un periodo trascorso in comunità – a contatto con gli altri, seguito da psichiatri e psicologi che lo hanno aiutato a riconquistare un rapporto sano con il sesso e un’affettività equilibrata – ha collaborato con un’associazione che si occupava di assistenza ai disabili. Il contatto diretto con i problemi altrui e il contributo attivo che Diego ha dato, oltre a estinguere la pena, gli hanno permesso di non sentirsi un essere umano biologicamente difettoso. Ha riacquisito un sano rapporto con sé stesso e con gli altri ed è andato avanti con la sua vita. Oggi Diego è un quarantenne sposato con figli che lavora nella pubblica amministrazione.
Attualmente la percentuale di ragazzi che scontano la pena in un istituto detentivo è molto inferiore a quella dei ragazzi che la scontano con una messa alla prova; il rapporto è quasi di 1 a 10 e, nel secondo caso, parliamo di circa 20.000 minori.
Troppo facile, qui, citare Voltaire, secondo cui il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, perciò io partirei da questo per ricordarmi che lo Stato siamo noi e che se un’istituzione funziona, in parte è anche merito nostro. Chiunque avesse un’idea per un progetto che coinvolga attivamente i ragazzi, può mettersi in contatto col Dipartimento per la giustizia minorile e sottoporglielo.
Il valore dell’area penale esterna è chiaro e, per quanto La città dei ragazzi possa magari apparire un film buonista (con tutta la diffidenza che mi suscita l’abuso di questa parola), la realtà dei fatti, a 85 anni di distanza, sembra dare ragione a padre Flanagan. Non esistono ragazzi cattivi.