Regina Horti di Laura Federici: dialogo tra orto botanico e carcere
Laura Federici fa dialogare lo spazio chiuso di un carcere con lo spazio aperto di un orto. Al Museo Orto Botanico di Roma fino al 22 ottobre.
Laura Federici fa dialogare lo spazio chiuso di un carcere con lo spazio aperto di un orto. Al Museo Orto Botanico di Roma fino al 22 ottobre.
Come far dialogare uno spazio verde, aperto e arioso come un orto botanico con uno spazio ristretto, coercitivo e claustrofobico come un istituto penitenziario se non attraverso l’arte?
L’artista reatina Laura Federici si cimenta in questo con la mostra Regina Horti a cura di Alberto Dambruoso, nata da una serie di progetti che dal 2016 l’artista ha portato avanti all’interno del carcere Regina Coeli di Roma e dalle suggestioni del vicino Orto Botanico.
Il mondo del fuori con la sua abbondanza di immagini, luce, ombra, colore e il mondo del dentro, immobile nel ritmo del tempo, del passare delle ore, del mutare delle stagioni, dello scorrere dei giorni sono i soggetti della mostra Regina Horti che inaugura 21 settembre su invito e resta aperta al pubblico fino al 22 ottobre 2023 presso il Museo Orto Botanico.
“Due luoghi, due storie si fondono qui: uno fuori e l’altro dentro, vicini e irraggiungibili, chiusi uno all’altro e al contempo congiunti. L’edificio della casa circondariale di Regina Coeli viene invaso dai colori dell’Orto, dal vento e dalle nuvole veloci, la luce mobile e il suono dei suoi abitanti leggeri. Natura e architettura, una coppia selvaggia, che fa fatica a restare unita; le foglie degli alberi a volte perdono colore, a volte ingoiano i cancelli, abitando tranquille le volte” (Laura Federici).
Visitando questa mostra potrete ammirare due progetti pittorici, Orto Botanico e Regina Coeli, tra loro fortemente interconnessi ma che possono essere visti e fruiti anche singolarmente.
La mostra è incentrata sul rapporto tra due luoghi così fisicamente vicini e al contempo così lontani.
Nel 2016 Laura Federici ha ramingato per i viali dell’Orto Botanico, tra meditazione, scrittura e disegno. A sette anni di distanza da quelle passeggiate fruttuose per l’arte e per l’anima, ritorna sul luogo del delitto, presentando una mostra personale.
Al contempo l’artista ha condotto laboratori artistico-rieducativi con i detenuti, alcuni dei quali ispiratisi proprio all’Orto Botanico. Proprio da questa duplice esperienza nasce Regina Horti.
“Mi sono lasciata sorprendere dal contrasto: così tanta luce, ricchezza, bellezza, ‘nutrimento’ fuori, tanta assenza di tutto, anche della luce del sole, dentro” (Laura Federici).
Quando l’artista ha scelto cosa rappresentare sulle pareti della prigione romana, ha deciso di apporre l’immagine di un’ombra piena di colore e di luce che permettesse agli occhi dei detenuti di oltrepassare quel limite e che portasse bellezza: l’immagine delle piante dell’Orto Botanico. Ha dipinto un grande foro sulle pareti insieme ai carcerati, superando così attraverso la sua arte muraria i confini della prigione.
Del resto l’arte non ha proprio il peculiare intento di far attivare la fantasia, l’immaginazione e il sogno?
“Federici ha colto in questi due mondi opposti – uno scandito dal passaggio delle stagioni l’altro dal tempo immobile, uno pieno di colori l’altro in bianco e nero – la possibilità di una contaminazione al fine di restituire un po’ di luce a chi non ce l’ha. Così facendo Laura Federici ha tolto un po’ del colore dall’Orto Botanico per darlo ai detenuti di Regina Coeli che per un attimo sono tornati nuovamente a vedere il mondo la fuori” (Alberto Dambruoso).
Le opere di Laura Federici hanno un segno veloce che scatta rapido, che esce fuori guizzante dal fondo dei suoi dipinti. Il disegno preparatorio diventa vivo attraverso il colore, subitaneo, rapido anch’esso come il segno.
L’artista si avvale di diversi media, partendo sempre da una ricognizione del reale che registra attraverso video dai quali individua i più interessanti frame da cui iniziare il lavoro. Poi si passa alla parte del lavoro in studio dove riversa le sue visioni su tele, tavole o supporti cartacei, avvalendosi anche del collage e di rielaborazioni fotografiche.
“Questi lavori sono sempre per me ‘attimi’, porzioni di tempo, più che dipinti; mi piace si legga questo, lo scorrere dello sguardo, la presenza invisibile del frame, del video che li ha generati, la luce che muta, lo sguardo che gira mentre il tempo scorre” (Laura Federici).
La mostra è arricchita da un video nel quale una colonia di pappagalli è ripresa nella fase di volo. Questi uccelli dimorano ormai da molti anni nell’Orto Botanico. Questi volanti migranti dell’etere si sono impossessati di questa nicchia verde nel core de Roma che a sua volta colleziona esseri viventi, appartenenti al Regno vegetale, provenienti da tutto il mondo.
Credo che ci siano più di un tema, insiti in questo lavoro, su cui Laura Federici vuol far riflettere i fruitori.
Durante il periodo della mostra si svolgeranno incontri, workshop e presentazioni secondo un calendario che verrà di volta in volta reso pubblico.
Laura Federici è artista e architetta che vive e lavora a Roma. Nella sua carriera ha all’attivo numerose personali e molte collettive, esponendo in Italia e all’estero, da Roma a Parigi, passando per Aleppo.
Ha partecipato alla XV edizione di FOTOGRAFIA Festival Internazionale di Roma, ma ha anche preso un volo nel 2021 per andare nel Sud della Cina al ARTFEM Women Artists 2 International Biennial of Macau.
Ha portato l’arte nostrana all’Ambasciata Italiana in Vietnam (Casa Italia Hanoi e Fine Arts Museum HCMC, 2018), all’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia (2019), e all’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia (2020).
All’interno della sua produzione di video, tecnica che spesso riveste un ruolo centrale anche nella sua produzione pittorica, ha realizzato nel 1999 ben 12 sequenze animate per Un amore di Gianluca Maria Tavarelli, commedia vincitrice del N.I.C.E. Film Festival New York.
Il suo lavoro – grandi tavole a olio, video, interventi pittorici su fotografia – è caratterizzato da linguaggi diversi e incentrato sulle declinazioni di una peculiare modalità operativa che, muovendosi in una zona di confine fra pittura e registrazione meccanica della realtà, dà vita, sull’onda di un incessante moto à rebours nei tempi del proprio vissuto, a una costellazione di opere che dialogano fra loro in un continuo gioco di stratificazioni di memoria e visioni.
All’inaugurazione su invito che si tiene oggi 21 settembre presso la Serra Espositiva del Museo Orto Botanico, arrivo accompagnata da Anna Grazia Stammati, personalità di spicco a livello nazionale per il suo impegno: insegnante ora in pensione al carcere di Rebibbia, presidente del CESP-Centro studi scuola pubblica, e presidente del Telefono Viola contro abusi e violenze psichiatriche.
È fondatrice della Rete delle scuole ristrette, osservatorio diretto sulla realtà e sullo stato dell’esecuzione penale che ha permesso ai docenti di attuare modalità di intervento utili per una piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione.
Ne approfitto per porre ad Anna Grazia Stammati alcune domande.
Come far dialogare uno spazio verde, aperto e arioso come un orto botanico con uno spazio ristretto, coercitivo e claustrofobico come un istituto penitenziario se non attraverso l’arte?
Qualunque “serio” discorso sulla possibile risocializzazione e riappropriazione di sé, da parte dei detenuti e delle detenute, non può far a meno di partire dal diritto di accesso alla cultura e al patrimonio culturale della comunità da parte della popolazione detenuta. Un discorso complesso che è diventato, però, nell’azione della Rete delle scuole ristrette, l’obiettivo centrale per ricostruire il rapporto del detenuto con quella società con la quale ha rescisso i legami dal momento del proprio ingresso in carcere.
Che cosa è la Rete delle scuole ristrette?
Una Rete informale costituita dai docenti che insegnano nei percorsi di istruzione in carcere, fondata dodici anni fa dal CESP-Centro studi scuola pubblica, che ha assunto come proprio scopo, tra gli altri, quello di fare di istruzione e cultura gli elementi centrali dell’esecuzione penale.
Su che cosa ha centrato la propria azione la Rete?
Sulla riappropriazione di uno spazio, che definirei “scenico”, da parte di persone che nella generalità dei casi sono state deprivate degli elementi costituivi della “cittadinanza” intesa come possibilità di vivere la propria vita nella pienezza dei diritti civili e politici. In questo senso la mancata centralità di istruzione e cultura nell’esistenza degli individui e le scarse conoscenze di base (i dati dello stesso Ministero della Giustizia lo confermano), possono determinare quelle disuguaglianze iniziali che nel corso della vita creano debolezze, che si incistano nella vita sociale del singolo e riproducono e ampliano le disuguaglianze iniziali, spesso causate dall’assenza di adeguate iniziative educative rivolte ai giovani, ma anche agli adulti.
Come avete fatto a connettere il mondo di fuori con la sua abbondanza di immagini, luce, ombra, colore e il mondo del dentro, immobile nel ritmo del tempo, del passare delle ore, del mutare delle stagioni, dello scorrere dei giorni?
Abbiamo portato il mondo di fuori in carcere e il carcere nel mondo di fuori, facendoli dialogare, essenzialmente attraverso due momenti, Il Salone Internazionale del Libro di Torino e il Festival dei due Mondi di Spoleto. Incontri interessanti e a tratti emozionanti, quello tra lettura, teatro, biblioteca, arte e carcere, un’utopia che, al di là dall’essere veramente realizzata, scopre scenari inediti.
Quali sono stati gli interventi in carcere?
Negli anni abbiamo cercato di costruire interventi adeguati alla condizione dei ristretti, con la promozione di attività di aggiornamento e formazione del personale; allestimento di laboratori didattici; potenziamento delle biblioteche; realizzazione di interventi finalizzati al recupero, all’integrazione e al sostegno dei detenuti anche dopo la loro uscita dal circuito detentivo. Percorsi mediante i quali proporre attività laboratoriali quali spazi primari di apprendimento/autoapprendimento/autoformazione, per la costruzione di uno “spazio-altro” di riconoscimento, ricostruzione e rappresentazione del sé. Solo così sarà possibile passare da un’esecuzione penale fondata sulla logica esclusiva del controllo ad una fondata sulla conoscenza del detenuto, creando opportunità e attuando un recupero socio-educativo che eviti di far uscire giovani e adulti dalle patrie galere più motivati a commettere atti criminosi che a riprendere il filo di proficue relazioni sociali, interrottesi con l’ingresso in carcere.