Certe volte per riscrivere l’immaginario del futuro è utile riflettere sul passato. Conoscere le sue dinamiche prendendone in considerazione i protagonisti ma anche coloro che nell’ombra hanno contribuito a forgiare un sentire, un’identità, creando un piccolo scarto nella conformità. Un cambiamento sottile, magari un semplice atteggiamento non allineato che nel tempo ha lavorato, sottotraccia lasciando un segno sottile ma indelebile.


Penso alle attrici del cinema delle origini, alle dive minori che si sono susseguite in oltre un secolo di storia della settima arte, alle icone che hanno marchiato epoche e stagioni della vita di fruitori di ogni età ed estrazione. Penso soprattutto al muto, sviluppatosi in un’epoca piuttosto lontana non solo storicamente, che talvolta viene erroneamente etichettato come noioso, lento, non di rado anche piatto, forse a causa dell’assenza di dialoghi e del bianco e nero (anche se ormai è risaputo che se mancavano i film a colori, abbondavano quelli colorati).
Centrale diviene quindi la questione relativa al femminile fuori dai canoni, non solo in termini estetici ma anche di comportamento. Un mancato allineamento alle regole, la voglia di affermare la propria identità facendo i conti con il giudizio del pubblico che corrispondeva anche ad una compromissione della carriera. La questione porta inevitabilmente alla luce anche un’ampia produzione ricca per generi e argomenti, sfavillante nelle scenografie, geniale nelle illusioni, non troppo morigerata nei costumi (anzi), coraggiosa nell’affrontare l’attualità e irresistibile nella gestualità esasperata.


Numerosi sono i nomi che ritornano nei libri di storia del cinema ma anche negli scrapbook degli appassionati, nell’articolato e variopinto mondo dei fandom. Alcuni universalmente noti, altri un pò meno. Ed è proprio in questa zona d’ombra che si ritrovano i segni di quella modernità ed emancipazione che non di rado ancor oggi troviamo a fatica.
Francesca Bertini, Lida Borelli, Rina De Liguoro sono solo alcuni nomi delle più celebri. Tra tutte le dive italiane, circoscrivendo la riflessione entro i confini nazionali, ho deciso di partire da quella che oggi viene citata con minor frequenza, ovvero Giuseppa Iolanda Menichelli, conosciuta più semplicemente come Pina Menichelli. Attrice misteriosa dall’atteggiamento schivo, dai gesti sempre caricati d’enfasi ed un volto dai tratti decisi e tenebrosi. Quella che oggi potremmo definire una sorta dark lady.


Nata a Castroreale, (ME) il 10 gennaio 1890 da due attori Francesca Malvica e Cesare Menichelli, discendeva da una famiglia di teatranti il cui capostipite era Nicola, importante capocomico nella Venezia della seconda metà del Settecento. Dopo una gavetta nel teatro inizia a recitare nel cinema nel 1913 quando comincia a recitare per la Cines di Roma, con la quale, in due anni, gira numerosi film, ampliando costantemente la propria esperienza  prima con la commedia poi in numerosi film drammatici sotto la direzione di affermati registi. La svolta fondamentale nella sua carriera avviene tuttavia quando Giovanni Pastrone, che all’epoca aveva già girato Cabiria, visionando alcuni film della Cines, l’avrebbe notata.


La chiama quindi alla torinese Atala Film, e la dirige ne Il fuoco (1915) facendole ricoprire il ruolo di un’enigmatica e provocante poetessa che seduce un giovane pittore trascinandolo in un turbinio di passione e drammi. Il grande successo del film consacra Pina Menichelli come femme fatale.
Ed è proprio ne Il fuoco che l’attrice mostra tutto il suo ardore, la sua passione esplosiva, il suo modo personale di fare cinema al di là dei giudizi, di essere una ribelle nei ruoli e manierista nei modi.


Riccardo Redi nel volume Cinema muto italiano (1896-1930) – 1999, Editore Marsilio, scrive “il titolo è dannunziano, la figura della femmina distruttrice è patrimonio universale, come lo è la passione che come una fiamma si accende, si consuma e alla fine si spegne. […] più delle altre celebri attrici del tempo, salendo al ruolo di diva, Pina Menichelli, la statuaria e fredda diva dalle movenze stereotipe e dagli stereotipi comportamenti, accentua i tic che allora costituiscono il codice: e la critica del tempo non esita a deridere questi aspetti grotteschi”.


L’anno seguente, sempre diretta da Pastrone, è la protagonista del film, tratto dall’omonima novella di Giovanni Verga, Tigre reale (1916), nel ruolo altrettanto conturbante e fatale della contessa Natka. Quest’ultima ascoltando le parole dell’amante respinto che la implorano minacciando il suicidio, risponde con una frase lapidaria “fallo, è bello”e suona come uno schiaffo che arriva forte anche al pubblico.


Nel 1920 passa alla casa romana Rinascimento Film, fondata per lei dal barone Carlo Amato, che sposa nel 1924, dopo la morte del primo marito, il giornalista napoletano Libero Pica, da cui aveva avuto tre figli e si era separata già nel 1912. Tra il 1918 ed 1925, nonostante le continue critiche alla sua recitazione eccessiva, è protagonista di film come La storia di una donna (1920), Il romanzo di un giovane povero (1920), La seconda moglie (1922), La donna e l’uomo (1923) e La biondina (1923) fino a Occupati d’Amelia (Telemaco Ruggeri, 1925).


Dopo questi due ultimi film e una carriera folgorante durata soli dieci anni, Pina Menichelli decide di ritirarsi per sempre a vita privata, per dedicarsi completamente alla famiglia e muore a Milano all’età di 94 anni nell’agosto del 1984, praticamente dimenticata.
 

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