Un’altra agricoltura è possibile: quella famigliare e di piccola scala
Studi recenti sulle rese dell'agricoltura famigliare e il programma GIAHS della Fao non fanno che confermare una tendenza: un'alternativa all'agricoltura industriale esiste.
Studi recenti sulle rese dell'agricoltura famigliare e il programma GIAHS della Fao non fanno che confermare una tendenza: un'alternativa all'agricoltura industriale esiste.
In queste ultime settimane, complice il disegno di legge sull’agricoltura biologica (di cui abbiamo già parlato), si discute molto sui modelli agricoli necessari per sfamare il pianeta con cibo sano, nutriente e buono.
Da molti commentatori è stata portata avanti l’idea che l’unico modo di fare agricoltura oggi sia quello industriale: allevamenti intensivi, monocolture, meccanizzazione, pesticidi, grandi latifondi gestiti da grandi società per azioni, OGM e quant’altro. Il tutto in nome della quantità. Delle rese. Che altrimenti non sarebbero sufficienti a sfamare la crescente popolazione mondiale.
Sebbene già in altre occasioni, abbiamo contribuito a smentire questa narrazione quantitativa, che vede una necessità che in realtà non esiste, occorre insistere sul fatto che la produzione agro-alimentare passa anche per metodi alternativi a quelli industriali, che ogni giorno di più si rivelano di successo: per le rese, nient’affatto trascurabili, perché sono coerenti con la visione importata dal Green New Deal e dalla transizione ecologica, perché il cibo di qualità è sempre richiesto, perché sono modelli produttivi utili non solo ai consumatori, ma anche ai produttori e ai lavoratori.
Per quanto riguarda gli allevamenti, il Focus Group dell’EIP-AGRI sulla produzione sostenibile di carne bovina, istituito dalla Commissione Europea, ha chiesto l’opinione di esperti, ricercatori, allevatori e Ong per trovare soluzioni affinché l’allevamento grass-fed (ovvero il sistema di crescita che permette ai bovini di restare al pascolo per l’intero ciclo di vita) sia sempre più sostenibile dal punto di vista economico, ambientale e sociale. Il rapporto finale del gruppo di lavoro è stato pubblicato a marzo 2021 e mostra i numerosi vantaggi dell’allevamento tradizionale, con dati, informazioni e raccomandazioni di buone pratiche per il futuro.
Su temi analoghi, va inoltre citata la Risoluzione Parlamento UE sulle gabbie per gli animali d’allevamento. Questa, approvata con 558 sì, 37 no e 85 astenuti, esorta la Commissione Ue a rivedere la direttiva europea sugli animali d’allevamento, che risale al 1998 (n. 98/58/CE), ed eliminare gradualmente il sistema di allevamento in gabbia entro il 2027 (qui ulteriori informazioni).
Un altro esempio viene dalla FAO. Con l’iniziativa denominata Globally Important Agricultural Heritage Systems l’organizzazione internazionale propone un diverso modo di fare agricoltura. Sul sito si legge che i “sistemi agricoli di importanza mondiale” sono dei modelli di bellezza e ricchezza naturale che combinano biodiversità, ecosistemi resilienti e patrimonio culturale di enorme valore. Sono locati in varie zone del mondo e costituiscono esempi di come sia possibile produrre beni e servizi, garantendo la sicurezza di milioni di piccoli agricoltori. Inoltre contribuiscono a mitigare i fenomeni migratori e a salvaguardare le varie specie naturali. Nondimeno, tali sistemi agricoli sono minacciati dal surriscaldamento climatico e dall’approvvigionamento delle risorse.
Il programma GIAHS della FAO si propone – con la cooperazione di altri soggetti (Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e Dipartimento di scienze e tecnologie agrarie, alimentari, ambientali e forestali (DAGRI) dell’Università di Firenze) – di difendere e promuovere questi modelli.
Sempre dalla Comunità internazionale viene l’impulso a favore di un’agricoltura più sostenibile, come quella familiare e di piccola scala. Le Nazioni Unite, infatti, hanno proposto, per il decennio 2019-2028, la decade dell’agricoltura familiare. Quest’ultima, come abbiamo ribadito anche in questo blog in varie circostanze, è in grado di contribuire con efficacia a una gestione sostenibile delle risorse e riesce a soddisfare pienamente le richieste quantitative di cibo.
Infatti, più dell’80% delle aziende agricole esistenti al mondo sono legate a modelli famigliari, hanno una superficie media di circa due ettari ma occupano oggi non più del 15% della superficie agricola mondiale, che rimane ancorata a poche aziende sostenute da un modello produttivo industriale (se ne parla in un recente studio pubblicato nel 2021 su Nature Sustainability in cui si è dimostrato che l’agricoltura di piccola scala garantisce, rispetto al modello industriale più alte produzioni e una maggiore capacità di conservazione della biodiversità, sia di quella naturale sia di quella di interesse agrario.
Gli esempi citati – una goccia nel mare delle numerosissime storie di agricoltura sostenibile e agro-ecologia che raccontato di successi e conquiste – servono a riflettere sul nostro modo di pensare determinati fenomeni. Ancorati a un’idea meramente quantitativa e sviluppista, riteniamo che il solo modo di sfamare il pianeta sia aumentare la produzione di cibo, adoperando quindi tutti i sistemi (meccanici, provenienti dalla chimica di sintesi, ecc.) che consentono di massimizzare le rese, ridurre i costi, aumentare i prodotti. Si tratta di una concezione limitata e miope, che intanto non fa i conti con i costi nascosti dell’agricoltura industriale, come i combustibili per le macchine, le enormi quantità d’acqua impiegate, le grandi distese di terra dedicate a monocolture, spesso mangimi, sottratte ad altre colture, il licenziamento dei contadini, che vanno a ingrossare le città.
Si aggiunga poi che tanto i fertilizzanti chimici quanto i pesticidi e i diserbanti inquinano le acque dei fiumi, dei laghi e quindi del mare, danneggiando una fonte essenziale di cibo per numerose popolazioni del pianeta, creando anche problemi alla loro salute (H. J. Mackenny, Artificial fertility. The enviromental cost of industrial fertilizers e H. Norberg-Hodge, Global monoculture. The worldwide destruction of diversity, in Fatal Harvest. The tragedy of industrial agriculture, San Raphael (California), 2002).
Tutto questo ci deve far riflettere e far aprire le nostre menti, spingendoci a informarci di più sui sistemi agricoli alternativi. Scopriremmo, ad esempio, che le aziende di agricolture biologiche e biodinamiche, pur avendo rese inferiori di circa il 20% rispetto all’agricoltura tradizionale, consumano tra il 30 e 40% in meno di fertilizzanti e circa il 97% in meno di pesticidi. Scopriremmo inoltre, come riportato negli esempi citati, che l’agricoltura famigliare e di piccola scala, l’agro-ecologia e l’allevamento non intensivo sono realtà possibili e percorribili senza timore di danneggiare l’attuale modello agricolo.