Negli ultimi decenni, l’Europa ha testimoniato una rinascita della natura selvaggia, caratterizzata da progetti di ricolonizzazione, normative ambientali e una nuova coscienza collettiva, che hanno permesso il ritorno nei nostri boschi di specie come lupi, orsi e linci.

Questo rinverdimento, unito all’espansione forestale dovuta alla migrazione verso le città, ci offre l’opportunità di riscoprire un legame con il mondo non-umano che sembrava relegato ai documentari su terre lontane.

Ma cosa sta veramente accadendo?
E perché questo processo dovrebbe interessarci?

Desidero esplorare la relazione tra l’essere umano e i grandi carnivori attraverso una lente zooantropologica ed ecosofica, evidenziando che le dinamiche relazionali di rilievo non si limitano solo allo spettro umano.

I grandi carnivori ricoprono ruoli emblematici nella nostra cultura e nella nostra psiche, incarnando concetti come la selvaticità, la libertà e la forza, ma risvegliando anche ataviche paure. Attraverso i loro adattamenti evolutivi, quali denti e artigli affilati, queste creature vengono spesso dipinte come gli incubi più oscuri dell’umanità.

La sfida principale sta nel trovare un modo per le società occidentali moderne, abituate a una certa sicurezza, di convivere con questi rivali ancestrali.

Il futuro delle nostre interazioni con queste soggettività non-umane poggia sull’istituzione di un equilibrio sensibile che riconosca la nostra vulnerabilità senza trasformarla in pretesto per azioni violente e vendicative ingiustificate.

Nell’Europa occidentale, l’idea di condividere lo spazio con grandi predatori si è in gran parte dissolta dalla memoria collettiva. Nelle aree come Gran Bretagna e Irlanda, il pensiero di reintrodurre i lupi (Canis lupus) risulta quasi proibitivo, influenzato più da timori atavici che da considerazioni economiche.

Il progetto Life Ursus in Trentino è emblematico in questo contesto. Quest’iniziativa ha salvato la popolazione locale di orsi dall’orlo dell’estinzione, ma l’entusiasmo iniziale si è presto trasformato in una diffusa orsofobia, soprattutto dopo un incidente tragico in cui un runner ha perso la vita in una colluttazione con un’orsa.

Photo by Angela on Pixabay

Tale episodio ha segnato un punto di svolta nella complessa e talvolta conflittuale relazione tra umani e grandi carnivori nella regione, alimentando il dibattito sulla coesistenza.

La mancanza di comprensione riguardo le esigenze e l’etologia degli animali contribuisce a incidenti del genere, ma è fondamentale anche riconoscere la nostra vulnerabilità ontologica come animali in mezzo ad altri animali, evitando reazioni di vendetta irragionevoli ogni qualvolta si verifichi un conflitto con la fauna selvatica.

Seguendo l’insegnamento della filosofa australiana Val Plumwood, dovremmo imparare a perdonare, accettare e persino sostenere le esistenze dei non-umani che ci minacciano, specialmente se al di fuori degli ambienti urbani.

La società manifesta un atteggiamento ambivalente nei confronti di questi animali, oscillando tra ammirazione e disprezzo. La questione dei grandi predatori invita a una riflessione collettiva sulle radici profonde delle nostre emozioni contrastanti verso questi esseri maestosi.

Prede o predatori? Nuovi modelli
di convivenza interspecie

L’etologo Hans Kruuk, nel suo libro Uomini, prede e predatori (Franco Muzzio Editore), suggerisce che l’attrazione umana verso gli animali carnivori derivi dalla nostra storia evolutiva, in cui abbiamo rivestito sia il ruolo di preda che di predatore. Secondo Kruuk, quando osserviamo, ad esempio, le iene cacciare nel Serengeti – luogo primario dei suoi studi – vengono risvegliati in noi istinti primordiali che ci permettono di identificarci sia con la preda che con il cacciatore.

Donna Hart, antropologa, ha evidenziato come Homo sapiens non abbia avuto originariamente un ruolo da super-predatore. La narrazione del killer ape maschile e antropocentrico si discosta dalla realtà dei fatti. La nostra tendenza a danneggiare la fauna selvatica, nonostante un’apparente predisposizione all’apprezzamento della vita, potrebbe non derivare da un intrinseco desiderio di distruzione, ma piuttosto dalla nostra posizione di vulnerabilità come specie che ha lungamente occupato il ruolo di preda.

Questa paura radicata, spesso rafforzata dalle narrazioni tradizionali e dal passaggio dal paganesimo al monoteismo in Europa, ha contribuito a modellare una percezione occidentale dominata dal concetto di controllo sulla natura. Contrariamente a questa visione, molte culture indigene, prima della colonizzazione, mostravano riverenza e coesistenza reciproca con i grandi carnivori. Tuttavia, è importante non idealizzare; l’umanità ha avuto un ruolo nell’estinzione della fauna selvatica ben prima dell’omologazione culturale moderna.

La questione cruciale che emerge è: come possiamo favorire una cultura di convivenza armonica tra le specie nel ventunesimo secolo, se l’idea di poter essere predati o feriti da un altro essere vivente è insopportabile per noi?

La realtà ineludibile è che, a meno che non si decida di eliminare completamente orsi e lupi dall’Europa, potremmo dover affrontare il giorno in cui un essere umano sarà vittima di un attacco predatorio. Pur ricevendo rassicurazioni dagli esperti sulla improbabilità che i grandi carnivori ci considerino prede, non possiamo ignorare il potenziale pericoloso di queste creature, sia in difesa di sé, del proprio territorio o della propria prole, come dimostrato da recenti incidenti tragici.

L’idea che possiamo vivere al di fuori della catena alimentare riflette un senso di eccezionalismo umano profondamente radicato e potenzialmente nocivo.

Siamo ciò che mangiamo, la coesistenza

Citando il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, siamo ciò che mangiamo, a cui aggiungerei che siamo anche modellati dagli esseri non-umani con cui condividiamo il nostro ambiente, compresi quelli che potrebbero vederci come cibo. La nostra identità specie-specifica è stata significativamente influenzata dalla coesistenza con creature imponenti.

Questa consapevolezza dovrebbe spingerci a ricercare e adottare nuovi modelli di convivenza interspecie. Tale convivenza richiede una riflessione continua e un’apertura mentale, poiché in un contesto ecocentrico autentico, l’interazione con la fauna selvatica diventa un’inevitabilità piuttosto che un’eccezione, invitandoci a considerare il nostro posto all’interno di un equilibrio di vita più ampio, dove possiamo essere sia predatori che prede.

Tale consapevolezza porta con sé una sfida filosofica e esistenziale, dovuta al nostro prolungato senso di eccezionalismo umano. Spesso dimentichiamo che possiamo essere non solo osservatori attivi ma anche parte integrante della rete alimentare.

Questo contesto complesso, in cui si intrecciano biologia e cultura, sottolinea come antiche paure persistano nel nostro immaginario collettivo, influenzando narrazioni e fobie irrazionali.

In un’epoca segnata dalla Sesta Estinzione di Massa, la sfida è promuovere una cultura di coesistenza in cui riconosciamo la nostra posizione all’interno della rete della vita, accettando la nostra vulnerabilità e fragilità come parte integrante della nostra esistenza.

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