Stupro. Già la parola è sgradevole, sembra un invito a non pronunciarla: s-t-u-p-r-o. Ha un suono forte, forse troppo – sa di lacerazione. E poi c’è quel tu in mezzo, s-tu-pro; quel tu che sembra un dito puntato e non si capisce mai se, mentre la dici, lo stai puntando addosso a un altro o a te stessa, accendendo un riflettore che non volevi, che nessuna vorrebbe mai”.

È tutto qui in queste righe: il tabù, lo stigma, la colpa, la vergogna. Anche il coraggio (soprattutto il coraggio) che aiuta a chiamare le cose col proprio nome. A nominarle per farle esistere. A scandire le lettere, una a una: s-t-u-p-r-o. È questo che fa il romanzo X, l’esordio di Valentina Mira (Fandango, 2021): dà un nome – quel nome – a ciò che è accaduto al suo corpo e alla sua vita una sera di molti anni fa.

Quelle gambe aperte a forza

Per farlo torna all’estate del 2010, l’anno della maturità. Valentina è a una festa quando succede. A farlo succedere è G., il capobranco, ben visto da tutti e amico fidato di suo fratello, uno che si interessa a un sacco di cose, nonostante la celtica al collo. Quella sera, dopo qualche bacio, G. decide che il no di Valentina sia detto per gioco (il giorno dopo le dirà: “Voi donne dite no e intendete sì”).

Valentina Mira non lo denuncerà mai. D’altronde, chi le crederebbe? Sono gli anni ’10, a nessuna e a nessuno è stato spiegato cos’è il consenso quando si tratta di sesso. A nessuna è stato detto che si può anche cambiare idea, che si può dire no anche dopo un bacio (o due, o quattro) o dopo una serata passata a flirtare. A nessuna è stato detto che uno stupro è uno stupro anche se il dolore non è visibile. A nessuna è stato detto che non si deve essere gentili per forza. Che ci si può anche incazzare quando serve. Che la violenza non è sempre sbagliata (“a volte è difensiva, a volte ti salva”).

Che aveva ragione Virginie Despentes quando scriveva: “Ce l’ho con una società che mi ha educata senza mai insegnarmi a far del male a un uomo se mi apre le gambe a forza, quando questa stessa società mi ha inculcato che è un crimine da cui non mi riprenderò mai”.

Sono gli anni ’10, e quando una ragazza viene stuprata la rabbia è l’ultima delle emozioni che ha in corpo. Vengono prima la vergogna, l’umiliazione, l’imbarazzo e il senso di colpa. Ancora una volta: nessuno le ha detto che non è colpa sua (“eccolo qui, il senso di colpa ancestrale”). Nessuno le ha detto che il dovere di rispondere a certi stereotipi può condizionare la sua esistenza. Nessuno le ha detto che la prepotenza maschile non è mai giustificata. Nessuno le ha detto che ogni sua scelta è libera e legittima e non deve avere conseguenze. Non queste.

Sono gli anni ’10 e quando una ragazza viene stuprata nessuno le dice che passerà una vita a volersi redimere per una colpa che non le appartiene. Che le succederà di voler dimostrare (al mondo, a sé stessa) di essere meritevole di altro. Che metterà in campo tutta la gentilezza, la compiacenza, la dedizione che possiede, anche verso chi non lo meriterà. Che si sforzerà di essere innocua e dignitosa, e lo stesso si sentirà inadeguata e manchevole e fragile e incapace di meritare amore.

Ci sono purtroppo millenni di cultura che dicono che se una donna denuncia uno stupro questo le si ritorcerà contro. Valentina Mira lo sa. Redige persino una lista: “Denunciare. I contro: dolore per mamma, per papà. Se lo dico è reale. Non solo: se lo dico, quella cosa continuerà nell’aula di un tribunale e durerà anni. Il momento dello stupro si dilaterà fino a diventare la mia vita. Se vinco, sarò per sempre quella che è stata stuprata. La vittima. Se perdo, sarò quella che si è inventata tutto. Sarò la pazza, la mitomane, l’infame”.

Sono gli anni ’10, dunque, ma molte di queste dinamiche le ritroviamo puntuali nelle esternazioni di questi giorni, nelle pagine dei giornali che continuano a portare a galla un’unica narrazione, quella degli abusi sessuali raccontati solo come aggressioni atroci e violente compiute da bestie e da mostri. Il grande mito dello stupro: quello dove si urla, si piange, ci si difende con tutte le proprie forze, e si denuncia immediatamente.

Il resto no. Il resto sono tutte le frasi che è facile ascoltare quando a denunciare sono persone normali vittime di altre persone normali (non bestie, non mostri, non stupratori seriali): “sono solamente ragazzi”, “volevano divertirsi”, “lei era ubriaca”, “li ha provocati”, se l’è cercata.  

Queste frasi hanno un nome. Si chiama cultura dello stupro, dall’inglese rape culture, e include tutti quegli atteggiamenti che minimizzano, e spesso incitano, alla violenza sulle donne: la colpevolizzazione della vittima, l’oggettivazione sessuale, lo slut shaming, tutta una serie di codici di comportamento che riproducono il controllo e la prevaricazione del corpo maschile su quello femminile (la cui volontà è sempre annullata), tutti i pregiudizi che hanno a che fare con la violenza di genere.

Sono demoni, fantasmi con cui conviviamo nostro malgrado da moltissimo tempo. Per questo servono libri come X di Valentina Mira (ma anche racconti e denunce e confessioni): perché il viaggio nel dolore aiuta a capovolgere la paura, a trasformarla in un’occasione di rovesciamento, di riscrittura, in un’avventura collettiva in cui donne e uomini possono dar forma diversa al futuro, ripensare le visioni che ci definiscono, far saltare un po’ tutto per aria, infine ricostruirlo, insieme.

Condividi: