È uscito recentemente il decadal survey che traccia le priorità di astronomia e astrofisica. A me, in tutta onestà, fa venire voglia di rileggere Gli dei di pietra, un romanzo visionario e discretamente pessimista del 2008, firmato Jeanette Winterson – più famosa forse per il suo attivismo LGBT+ e per quel capolavoro che è Written on the body.

Ma procediamo con ordine: ad oggi 2021 una delle priorità del campo della ricerca della fisica è trovare mondi abitabili, la voce nella grande lista delle cose da fare per il futuro si chiama pathways to habitable worlds. Come?
In primis, potenziando la NASA e aumentando le missioni nello spazio, ottimizzandone programmazione e realizzazione.
In secondo luogo, costruendo un telescopio spaziale mastodontico. Quest’ultimo, denominato IR/O/UV (infrarosso, ottico, ultravioletto) molto più grande dell’Hubble, potrebbe osservare pianeti in determinate condizioni di luce e fornire una certa quantità di dati su essi e sul loro sistema solare. Con undici miliardi di spesa a preventivo, il mostro sarebbe pronto nel 2040. Poi c’è l’HabEx, Habitable Exoplanet Observatory, sempre spaziale ma più corto e meno costoso, che servirebbe a fare il censimento degli esopianeti. In più a due telescopi giganti da costruire a terra: il Magellano in Cile e il TMT – il Telescopio di Trenta Metri – alle Hawaii (fra l’altro osteggiato dai nativi hawaiani perché pensato per un vulcano di enorme valenza storico-culturale). Anche il costo delle missioni, che dovrebbero seguire secondo le indicazioni del survey ai risultati del grande telescopio, sarebbe vistoso.  

Ora, non è che mi sia avversa l’idea. E l’inquietudine che provo nel leggere questa notizia non ha niente a che fare con lo stimato campo della fisica, dove i ricercatori fanno quello che possono per rispondere alle grandi domande che riguardano essere umano e universo. Sarebbe anche bello scoprire finalmente che le condizioni che hanno reso possibile la vita sulla Terra si sono più o meno replicate altrove. Il grosso problema, quello che mi fa perdere di ottimismo e in effetti mi avvicina al tono in cui Jeanette Winterson tratta l’argomento nel suo romanzo, è che l’elefante nella stanza che spinge al potenziamento di questo tipo di ricerca definita priorità (assieme ai classici temi di studio sulla miglior comprensione delle dinamiche dell’universo e dell’evoluzione delle galassie) si chiama crisi climatica.

Perché metti che il pianeta abitabile lo troviamo e, nel mentre, la crisi climatica è giunta a un livello tale che per vivere dovremmo teoricamente terraformare la Terra. Che si fa? Non riesco a non pensare che questa top priority non tenga conto del presente. E, indipendentemente dai risultati dell’astrofisica, si parla di spendere un sacco di soldi sulla ricerca di pianeti abitabili, ma al G20 di Roma si ripetono gli accordi di Parigi che non sono stati effettivi perché non rispettati facendo pochissimi passi avanti. Silvia Peppoloni, giustamente, parla di cambio di paradigma necessario riguardo la COP26 di Glasgow. Propongo un’ipotesi speculativa: se trovassimo un pianeta abitabile, se potessimo perfino andarci in maniera relativamente agevole, data l’aggressività con cui stiamo trattando il nostro di pianeta, come ci comporteremmo? L’immagine che mi viene in mente è quella dei conquistadores nel nuovo mondo. Già, restando sulla Terra, c’è una discreta sordità a proposito delle ragioni degli hawaiani.

E qua arrivo a Jeanette Winterson che questo pensiero evidentemente lo ha fatto prima di me. Gli dei di pietra è una cli-fi, un libro in prosa, ma alterna momenti tanto accorati da essere quasi lirici perché quello che l’autrice ha da dire non è certo facile da digerire. La vicenda è tripartita, ed è evidente che il modello strutturale che regge l’impalcatura è Orlando di Virginia Woolf. L’immaginario invece pesca da Orwell, da Jurassic Park, da Chernobyl. Nella prima storia, in un passato indefinito, Billie vive in un mondo di consumatori superficiali (con il terrore del decadimento fisico ma non di quello del pianeta) che sta collassando – l’unica speranza è l’avvistamento di un pianeta azzurro abitabile sul quale la specie può migrare. Il piccolo problema è che ci sono i dinosauri. Billie allora partecipa alla prima spedizione assieme a Spike, un’affascinante Robosapiens reduce da un viaggio esplorativo (in cui ha fatto anche da schiava sessuale agli astronauti) e che ha rischiato la rottamazione perché evoluta oltre il controllo umano. Spike sembra l’unica che dice la verità: Orbus, il pianeta su cui si apre la storia, potrà vivere altri cinquant’anni, sul Pianeta Azzurro bisogna andare ora e ricominciare da zero con una società a basso impatto. Nessuno sembra molto ascoltarla – tranne Billie, che per lavoro deve tenere nascosta la sua coscienza politica, e che se ne innamora. Questa storia finisce con l’impatto della navicella/asteroide da Orbus che fa estinguere i dinosauri e morire lentamente le protagoniste. Dall’asteroide veniva lanciato nello spazio un segnale.

Nella seconda storia, la prima si ripete su microscala: Billy Crusoe (!) è un marinaio a seguito di Cook che capita sull’isola di Pasqua. Spikkers è invece figlio di un naufrago olandese e di un’indigena (di nuovo, parte di una minoranza), ed è il Venerdì della situazione. La triste vicenda ha a che fare con gli alberi dell’isola, vittime (assieme agli idoli di pietra) di una lotta fra tribù. Nella terza storia abbiamo di nuovo un pianeta al collasso. Billie programma Spike, la prima robosapiens, che è solo una testa. La programma per More, un’impresa che si dice anticapitalista e sostenitrice della decrescita ma di fatto ha il controllo politico-economico assoluto sull’Occidente. Poi la perde in una periferia degradata, dove si traffica di prostituzione e contrabbando e dove c’è una foresta radioattiva nella quale la vita è ricresciuta, feroce. Ci sono anche varie comunità alternative. Billie diventa ufficialmente una terrorista agli occhi di More. Ritrova Spike grazie a un barista di nome Venerdì (i Fridays for Future non esistevano ancora) ma More schiera l’esercito per catturare la sventurata ricercatrice. Dopo uno scontro tra More e gli abitanti della periferia, assieme ai ruderi umani che popolano la Foresta, Billie e Spike vanno verso il telescopio di Lovell, dal quale avevano captato un segnale antico che si rivela essere il segnale che nella prima parte era stato mandato al tempo dell’asteroide. Spike capisce che non c’è speranza, gli esseri umani ripetono i loro errori. Billie viene uccisa da alcuni soldati mentre sta passeggiando e riflettendo sull’accaduto.

Per Winterson il problema non è la ricerca o l’esplorazione in sé, ma l’atteggiamento aggressivo e di conquista – di consumo. Questo libro sembra una constatazione triste del fatto che, persi nelle nostre sovrastrutture, come esseri umani non ce la faremo mai a non distruggere ciclicamente il nostro stesso sistema. Il grande racconto dell’emancipazione dallo sfruttamento e del progresso come indefinito miglioramento è decisamente una prospettiva finita amaramente – anzi ha dimostrato tutti i nostri limiti, se è vero che ogni tecnologia innesca una ridefinizione dell’umano.

Ecco, io vorrei tanto che Jeanette Winterson si sbagliasse. Se avesse ragione, sarebbe inutile anche l’attivismo politico che oramai va portato avanti tenendo sempre più presente il celebre motto di Gramsci: se al pessimismo dell’intelligenza non supplisce l’ottimismo della volontà, siamo davvero perduti.

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