Nasim Eshqi è la prima arrampicatrice outdoor che apre le vie alle donne iraniane. Nel documentario Climbing Iran su Rayplay, la regista Francesca Borghetti descrive la sua storia. Nasim Eshqi fa scivolare tutti coloro che si sono arrampicati sugli specchi perchè la volevano far cadere solo in quanto donna.

Mentre le stragi contro la libertà continuano in Iran, stavolta non in piazze insanguinate per le proteste, ma con una violenza più subdola, silenziosa e invisibile, mentre nella repubblica islamica si soffoca il respiro rivoluzionario prima che spazzi via il sistema, emanare un gas tossico è la strategia simbolica perfetta del regime.

Tappare bocche e stordire il sapere che non fa in tempo ad arrivare al cervello, ad una mente consapevole, è ciò che è successo a centinaia di alunne, bambine avvelenate a scuola affinché non venissero istruite, ammette il viceministro della salute Panhai. 

In giorni in cui l’aria di libertà di quel Paese sembra sempre più rarefatta, allora, vorrei dedicare a tutte le bambine ricoverate e ammutolite in bombolette, il vento leggero di Nasim Eshqi, simbolo del suo stesso nome persiano. Nasim Eshqi riporta l’ossigeno pulito a tutte loro, salendo montagne, sfidando le vertigini e la debolezza, gli stessi sintomi introiettati da una cultura repressiva e provocati dal gas che le ha intossicate. 

Come racconta il documentario uscito nel 2021, Climbing Iran, Nasim Eshqi è stata la prima ad aprire la via alle donne iraniane, così si dice nel gergo sportivo quando si traccia un itinerario sulla parete da arrampicare, prestandosi ad una metafora perfetta.

Prima di scalare, in tenda, Nasim Eshqi si mette lo smalto rosa, un rituale che le dà colore, potere ed energia, negati dagli abiti neri che la dittatura impone. Alla fine della scalata “guardo le unghie rovinate e vedo che ho arrampicato molto”.

Lo smalto consumato di Nasim Eshqi è un segno femminile del suo traguardo ed è bello che sia visibile sul suo corpo, per una fatica scelta, un corpo sbagliato per il suo sogno nel cassetto pieno di hijab e biancheria intima. Essere maschio; un sogno notturno e concreto per una disforia culturale, di quelli che nel risveglio ti tocchi le parti intime per controllare, un sogno che ricorda il medioevo di Christine de Pizan, prima scrittrice di professione del ‘400, anche lei in preda all’altra disforia dei sogni quando sono contemporaneamente anche incubi. Christine de Pizan sta per affondare da una nave e sogna che la Fortuna la trasforma in uomo, solo così riesce ad aggiustare l’imbarcazione a furia di piantare chiodi. Quei chiodi diventano oggi i picchetti di Nasim Eshqi.

Anche per lei è un sogno ricorrente essere maschio, da quando, a partire dai 9 anni, le bambine iniziano a mettere il velo a suggellare un segno distintivo, sebbene fin da piccola Nasim Eshqi volesse solo diventare forte e fare i giochi dinamici dei bambini.

Inizia a vestirsi e uscire camuffata da maschio per sentirsi più libera, a saltare scuola per gli allenamenti di arti marziali e kickboxing, ma mettere il velo, al di là delle scelte religiose che si vogliano fare o meno, ammesso che siano libere, nello sport è semplicemente scomodo.

All’università, a 23 anni scopre l’arrampicata e clandestinamente inizia a frequentare un gruppo misto di uomini e donne, non una cosa così normale in un Paese in cui vige una segregazione di genere in ogni ambiente.

Comincia ad arrampicare fuori grazie alla fiducia e all’apertura del suo maestro che la definisce un uragano, in senso buono, e del suo compagno di cordata, ma non è scontato trovarne di uomini così, soprattutto se sono sposati o religiosi. Nasim Eshqi parte dalla montagna che sorge ai piedi di Theran e con le sue forzde valica i confini geografici di catene non solo montuose.

Le rocce dell’ Iran verticale, questo il nome del podcast tratto dal documentario e dalla sua storia, appunto, in salita, una strada vertiginosa e in picchiata. La cima è ancora la corda su cui si aggrappano molte donne, ma per Nasim Eshqi è riuscita a diventare anche la vetta panoramica.

L’arrampicatrice segue solo le leggi della natura, dove la gravità, dice, “attira verso il basso tutti allo stesso modo”. La natura non guarda in faccia a nessuno, i vestiti si adattano per comodità, non c’è polizia morale a cui nascondere i capelli al vento, lunghi, che svolazzano sulle vette, ma che prima erano legati ai permessi e coperti dai visti concessi dei Paesi vicini.

Il progetto della regista era cominciato con l’obiettivo di farle aprire una via sulle Alpi in Italia lanciando una raccolta fondi, ma la parola Iran crea problemi alla piattaforma, il sistema gestito dagli Stati Uniti prevede sanzioni verso quel Paese e, quindi, i fondi sono stati bloccati. 

La spinta mediatica, però, è così forte che le persone prendono talmente a cuore la causa di Nasim Eshqi che iniziano a donare i soldi direttamente alla regista, e così ce la fa, con alla mano una corda e 30 giorni di visto per arrampicare in Europa, 27 di questi giorni sono interamente dedicati a scalare, come si suol dire “non aveva tempo manco di respirare”, dormiva in treno tra una carrozza e l’altra. 

Sulle 80 vie che oggi ha aperto nelle crepe della terra, in equilibrio sugli appoggi da cui prevedere, con la pazienza di questo sport, ogni passo falso, ma anche in equilibrio sulla sua tenacia e determinazione, allora, si riscrive in forma nuova un vecchio proverbio: “se la montagna non va da Maometto, Nasim Eshqi c’è andata al suo posto”.

Spero che la sua ventata possa muovere nuvole pesanti e far scrosciare una tempesta che ripulisca le strade martoriate, che nasconda le tracce di quelle ragazze che hanno dovuto confessare la colpa per aver ballato in pubblico e postato il video su TikTok, mentre, con i sederi sciolti al ritmo di Calm Down di Selena Gomez, si prefiguravano già il tictac, spero che il loro non sia più un caso eccezionale ma di eccezionalità, che non sia il caso singolo promosso da una risonanza mediatica o da un algoritmo intelligente, che avere la libertà di parola non sia il motivo per scegliere di andare in un Paese occidentale e rimanerci incastrato per sempre perché diviso in blocchi, senza vie da aprire.

L’8 marzo, tra l’altro, nella giornata internazionale della Donna, nel 1979, in Iran il velo diventava obbligatorio. Sulla frattura di questa contraddizione dedichiamo il nostro sciopero libero alle donne iraniane che non lo sono, perché questa festa tolga la D maiuscola alla donna al singolare e possa diventare normalità e, un giorno, davvero internazionale. Apriamo la testa e scopriamocela senza andare in ospedale.

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