Se non lo studiamo per mestiere – ma forse anche in quel caso – le nostre conoscenze sul cibo sono limitate.

Lo sono perché non riusciamo ad avere contezza di come i vari alimenti vengano prodotti, lavorati, conservati e trasportati. Lo sono perché sappiamo poco della loro vera qualità, delle proprietà organolettiche e degli effetti benefici o malefici sul nostro corpo. Lo sono perché non sappiamo molto di come funzioni l’approvvigionamento di cibi in molte zone del pianeta, né come questo possa essere migliorato.

Per questo c’è un solo rimedio efficace: informarsi e pensare.

Le informazioni e i dati su questi temi non mancano. A volte ci mancano gli strumenti per valutarli. Benché, a ben guardare, gli strumenti li abbiamo e sono i nostri cervelli. Ma dobbiamo scegliere di farli lavorare.

Quindi non possiamo limitarci a credere a tutto ciò che leggiamo o ad agire in modo istintivo o superficiale. L’acquisto e il consumo di cibo sono atti complessi, pieni di implicazioni, che meritano la dovuta attenzione.

E questo anche perché il sistema di controllo e quello legato alla comunicazione e all’informazione sull’agroalimentare sono spesso deficitari, ingannevoli, parziali, quando non in malafede. Facciamo qualche esempio.

Gli studi Fao su family farming
e agrobusiness

Se ci interroghiamo sulla necessità di soddisfare l’ingente richiesta di cibo di un pianeta sovrappopolato come la Terra, ci viene istintivamente e intuitivamente da pensare che sia la grossa produzione agro-industriale a risolvere il problema.

A conferma, recentemente, uno studio sponsorizzato dalla FAO (Lowder S.K. et al, Which farms feed the world and has farmland become more concentrated?  in World Developmentafferma che l’agricoltura contadina produce solo circa un terzo del cibo e che la parte restante si deve invece all’agrobusiness.

Andando a guardare meglio – ripensando quindi l’analisi su questi dati – si scopre che il rapporto della Fao si riferisce al cibo prodotto e non a quello consumato, conteggiando quindi anche gli sprechi, e riguarda tutta la produzione agricola – quindi anche quella per i biocarburanti – e non solo quella alimentare (errori e contraddizioni sono stati esposti in una lettera diretta alla FAO, alla quale quest’ultima non ha mai risposto).

Ma c’è di più. La stessa FAO, in un altro rapporto, ha reso noto che le aziende agricole familiari producono l’80% del cibo che consumiamo, sostenendo quindi la necessità di promuovere il family farming e l’agricoltura di piccola scala.

A tal riguardo, la rete alimentare contadina dispone di meno del 25% della terra e dell’acqua del mondo per uso agricolo. Al contrario, la catena alimentare industriale possiede e usa più del 75% della terra agricola, dell’acqua e del carburante del mondo.

Quindi, a conti fatti e ragionando sui dati che abbiamo, è proporzionalmente molto più inefficiente e improduttiva di quella di piccola scala. Infine, mentre quest’ultima è molto poco sovvenzionata, l’agro-industria riceve ancora sussidi dai governi nazionali di molti stati mondiali e dall’Ue, con la PAC, che anche nella sua nuova formulazione, approvata da pochi mesi, favorisce il modello agricolo industriale, perché premia gli ettari coltivati e non le pratiche sostenibili: più è ampio il terreno, maggiore è l’entità del sussidio.

Facciamo un altro esempio. I promotori degli Organismi Geneticamente Modificati (OGM) sostengono che questi risolveranno il problema della fame nel mondo. Purtroppo, è un falso, una clamorosa bugia (ne ho già parlato).

Due le principali motivazioni contro questa tesi: in primo luogo, trattandosi di prodotti commerciali le grandi compagnie che producono OGM (si tratta di tre grandi multinazionali che controllano il 70% del mercato mondiale dei semi e il 75% di quello dei pesticidi) non regalano i semi geneticamente modificati e anzi ne detengono i brevetti industriali che hanno un costo per chi voglia adoperarli.

Secondo, allo stato attuale della ricerca scientifica sul tema non esistono piante GM resistenti a malattie, siccità, salinità e alte temperature che potrebbero superare alcuni problemi di natura fisica che danneggiano le rese agricole.

Senza contare che il problema della fame nel mondo – ma anche su questo occorre documentarsi e ragionare – è un problema di povertà e distribuzione della ricchezza non di aumento delle produzioni.

Continuiamo. Quando parliamo di salubrità alimentare siamo abituati a credere che nei supermercati e nei prodotti della grande distribuzione avremo più garanzie: le insalate in busta sono trattate con prodotti chimici, quindi non avranno residui organici; i prodotti confezionati sono al riparo da contaminazioni; i cibi delle aziende più famose non possono permettersi di rovinare la loro reputazione, quindi sono iper-controllati; la catena del freddo della grande distribuzione è sicuramente più efficiente di quella di un piccolo distributore.

Queste affermazioni, seppure corrette in sé, non tengono conto di un fattore decisivo che fa riferimento alla sicurezza alimentare e che può tradursi in una domanda: a quale tipo di sicurezza ci stiamo riferendo? Oppure: quale possibile patologia vogliamo scongiurare?

Perché se il nostro obiettivo è evitare che i nostri cibi possano procurarci un attacco di dissenteria, un po’ di mal di pancia o di nausea, la grande distribuzione e i supermercati sono la risposta giusta.

Ma se il nostro problema riguarda cosa c’è veramente negli alimenti che consumiamo, cosa è già presente e cosa viene aggiunto e, rispetto a questo, cosa è naturale e cosa è il risultato della chimica di sintesi beh, qui ci dobbiamo informare un po’ meglio. E riflettere.

Perché sono i prodotti della grande distribuzione che vengono trattati con fertilizzanti e concimi chimici.

Perché sono i capi di bestiame dell’allevamento intensivo che vengono bombardati di antibiotici e fatti crescere a forza.

Perché sono gli alimenti venduti dalle grandi corporations che sono prodotti sfruttando manodopera a basso costo dei Paesi in via di sviluppo, che vengono trattati con sostanze chimiche per affrontare lunghi viaggi, che vengono ottenuti inquinando, deforestando e adoperando prodotti potenzialmente molto dannosi per la nostra salute (un paio di esempi, tra i tanti, qui e qui).

E allora quando scegliamo un cibo pensando alla sicurezza alimentare dobbiamo ragionare su quale possibile controindicazione vogliamo prevenire, perché alcune potrebbero essere più gravi di altre. Perché aspetti come l’igiene e la conservazione dei cibi sono importanti, ma l’utilizzo di sostanze potenzialmente cancerogene lo sono decisamente di più.

Ecco perché dobbiamo riscrivere il nostro immaginario sul cibo, che deve essere il risultato di un pensiero, di una consapevolezza, e non il frutto di disinformazione o di approcci superficiali.

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