Mi sono posta questa domanda ascoltando alcuni creativi di professione durante lo scorso lockdown. Laddove io, fresca di studi sulla cli-fi, vedevo nella crisi sanitaria ed economica una potenziale occasione per considerare finalmente certe questioni, certi generi e certe modalità narrative, i creativi che mi sono trovata ad ascoltare, nel panico a chiedersi come saranno le storie del futuro, si ponevano questioni triviali del tipo se, per continuare a parlare del mondo come lo conosciamo, occorra retrodatare tutto al 2019.

Alla luce dei miei studi, ho interpretato il panico di quei creativi in questo senso: è dura ricalibrare il proprio immaginario antropocentrico quando un virus, cioè il non-umano invisibile, diventa protagonista della realtà. In Italia il genere in cui letteratura e cinema di qualità da decenni oramai si riconoscono, il cosiddetto realismo sociale, cioè che guarda ai rapporti sociali nel presente o a riflessioni e riletture di rapporti sociali nel passato, è da definizione focalizzato sul visibile e sull’umano. Il problema arriva quando, in nome di questa grande tradizione, nata nel dopoguerra come reazione giusta e vitale alla propaganda fascista mistificante, ci se ne scorda un’altra – speculativa – nata in quegli stessi anni e fortemente scoraggiata dall’apparato intellettuale dell’epoca.

Premetto che questo articolo non vuole aprire una polemica, ma una discussione seria sul perché i generi speculativi (fantascienza e utopia/distopia e di rimando la cli-fi) in Italia sono relegati al cult, all’autore singolo, alla controcultura. Il mio non è certo il primo appello a un recupero: il professor Matteo Meschiari ha gridato la necessità di ampliare l’orizzonte creativo dalle pagine del suo pamphlet La grande estinzione (2019), per fare un esempio. L’Italia ha avuto grandi maestri non realisti: Dino Buzzati ha costruito la sua carriera su un realismo magico altamente onirico/simbolico, facendo da contraltare letterario a Fellini. Racconti verosimili come Sette piani riescono a raccontare l’invisibile in maniera magistrale (l’incubo, la maledizione, la parte invisibile di una malattia in quel caso). La collana Urania poi, che pubblicava nei primi anni grandi maestri come J. G. Ballard, è stata ghettizzata e sottostimata come i Gialli Mondadori e i libri di Liala; solo che al contrario del giallo e del rosa, la fantascienza non ha in seguito subito grandi rivalutazioni post-moderne. Un autore drammaticamente impegnato come Primo Levi fu accusato addirittura di aver rinnegato il suo passato quando scrisse la raccolta di fantascienza Storie Naturali (1966) al contrario intrisa dell’esperienza nei campi di sterminio. Infine, uno scrittore visionario oggi rivalutato come Guido Morselli, dopo i molti rifiuti, sentendosi tagliato fuori dalla vita letteraria italiana e alienato dal resto, concluse prematuramente la propria vita sparandosi.  

Perché quest’ipertrofia del realismo? Perché un ipotetico J. G. Ballard italiano non avrebbe avuto probabilmente dove inserirsi nel panorama letterario degli anni ’60? Perché tuttora i grandi premi (Strega, Campiello…) annoverano poca fantascienza e poca distopia, spesso ibridata con umorismo o satira quando presente tipo Il censimento dei radical chic di Giacomo Papi?

Ci sarebbe da dibattere a lungo, nelle poche righe di un articolo non posso che sintetizzare la mia ipotesi. Il punto di partenza è il secondo dopoguerra, il momento di rinascita della cultura italiana dopo anni di regime. Benedetto Croce era il faro dei moderati, Togliatti e Adorno i riferimenti della sinistra. Questi tre punti di vista erano, di fatto, uniti nel rifiuto di fantascienza e utopia/distopia. Croce, com’è noto, non poteva soffrire la fantascienza, data la poca stima che nutriva per il sapere scientifico in generale, quanto all’utopia o alla distopia, le considerava un trastullo intellettuale, depotenziando totalmente il potere politico della fantasia speculativa – dato che i cambiamenti vanno sempre prima immaginati. Togliatti, in quanto segretario e figura chiave del Partito Comunista Italiano, spingeva per un realismo socialista zdanoviano focalizzato sui lavoratori e la lotta di classe, comprensibile a tutti. Adorno infine era schierato apertamente con la letteratura d’avanguardia dato che una letteratura formalmente risolta, comprensibile e godibile degenerava immediatamente per lui nella letteratura di consumo. Poiché il mondo non è più lo stesso per via del consumismo oppressivo e dei campi di sterminio, per Adorno una letteratura tradizionale equivale a una frode, a un velo rassicurante che nasconde il cambiamento – ed è una sensazione che il filosofo percepisce in particolare riguardo al romanzo statunitense.

Ciliegina sulla torta: i fascisti, delusi e amareggiati, si chiusero nel loro mondo di discronie nostalgiche improntate non tanto a pensare il futuro ma a riscrivere il passato. La prima discronia vera e propria italiana, cioè che individua un punto definito sulla linea temporale reale da cui si dipana la linea alternativa del libro, s’intitola Benito I Imperatore (1950) e fu scritta dal giornalista dichiaratamente fascista e antisemita Marco Ramperti. Un merito, il primato di Ramperti, che certo non aiutò a far accettare il genere agli intellettuali antifascisti del dopoguerra, considerato anche che Benito I Imperatore è stato il primo romanzo di un fortunato filone fantafascista. La discronia italiana però non è stata solo fascista. Vale la pena ricordare altri due esempi: Guido Morselli, in Contro-passato prossimo, riflette su come una possibile vittoria della Triplice Alleanza avrebbe potuto scongiurare la Seconda Guerra Mondiale e Luciano Bianciardi in Aprire il fuoco addirittura sovrappone Risorgimento, Resistenza e il contemporaneo Sessantotto per rimarcare tristemente che tutti e tre i movimenti sono destinati a fallire dato che nessuno di loro mette sotto scacco il sistema economico. Riscrivere il passato e guardare meno (degli autori angloamericani) al futuro è il tratto – l’unico – che accomuna i fantafascisti a Morselli e Bianciardi.  

Avendo scoraggiato per decenni fantascienza e utopia/distopia/discronia, non è difficile capire come mai in Italia si scrivano poche cli-fi. Bruno Arpaia ha fatto un ottimo lavoro in Qualcosa là fuori (2016) innestando la formula del romanzo sociale nel futuro e superando Benedetto Croce con stile, dato che il libro mette in scena pedissequamente previsioni di scienziati. Tuttavia, la resa didascalica dei contenuti di papers scientifici non è l’unico modo per fare cli-fi. Il cambiamento climatico né si vede né si percepisce, ad esempio, e il realismo è inadeguato a coprire ciò che non è a misura delle percezioni umane. Stesso discorso vale per un virus, percepito solo nei sintomi della malattia. Un’arena narrativa limitata al mondo umano poi tende a tagliare fuori un discorso sull’ambiente, che sia filosofico, come in Gli dei di pietra di Jeanette Winterson, oppure simbolico, come l’opprimente natura della tetralogia di Ballard, protagonista quanto gli esseri umani.

Il realismo è uno strumento estetico che, in tanta parte della nostra storia, si è dimostrato adeguato al parlare del presente, ma bisogna prendere in considerazione l’ipotesi che nel mondo di domani potrebbe non essere più sufficiente; e il panico dei creativi con il quale ho iniziato questo articolo è, a parer mio, manifestazione post-pandemica di una parziale inadeguatezza dell’uso totalizzante del genere, incoraggiato fino ad oggi. Il realismo dovrebbe tornare a rappresentare una scelta estetica, non un’opprimente, onnipresente gabbia cognitiva.

Libro consigliato: Matteo Meschiari, La grande estinzione, immaginare ai tempi del collasso, Armillaria (Roma: 2019) 

ENGLISH VERSION

Italian realism: aesthetic choice or cognitive cage?

I’ve asked myself this question while I was listening to some creative by trade in a web conference that took place last spring, during the first lockdown. I was just graduated in English literature with a final dissertation on cli-fi, and concerning the relationship between the health and economic crisis and narrative, I couldn’t help but seeing it as a potential chance to consider, at last, certain topics, certain genres, certain narratives choices. Instead, those panicked creatives I was listening to, while wondering about the stories of tomorrow, asked themselves trivial questions like if writers should backdate their plots to 2019 to talk about the world as we used to know it.

On the basis of my studies, this is how I interpreted their panic: it must be hard to recalibrate one’s anthropocentric imaginary after a virus, that is something invisible and not-human, stole the spotlight. In Italy “social realism”, focused on social relations of the present or rewriting and reflecting on social relations of the past, it’s considered the high-quality genre that identifies high-quality literature and cinema. As the definition “social realism” might suggest, it talks about visible human matters. Trouble is, in the name of this glorious tradition, that rose after the Second World War as a reaction to mystifying fascist propaganda, Italian intellectuals tend to forget a parallel tradition – the speculative one – that developed in those very years and that intellectuals of the time highly discouraged.

Let me first say that I don’t mean to argue, I’d rather wish to start a serious debate about why in Italy the only place for speculative genres (such as sci-fi, utopia/dystopia, and consequentially, cli-fi) still mostly is into the counterculture. I am certainly not the first one to call for a re-evaluation of the non-realistic tradition: professor Matteo Meschiari yelled out loud the same need of widening the creative horizon from his pamphlet La grande estinzione (The Great Extinction, 2019), and that’s just one example. Actually, Italy had veritable masters of non-realistic fiction: Dino Buzzati built his novelist career on magic, oneiric, symbolic realism – the literary counterpoint to Fellini’s films. His short stories like Seven Floors tell the invisible (in this case the nightmare, the doom of the unperceivable aspects of an illness) in a magistery manner. Mondadori’s Urania collection, founded in 1952 and focused on sci-fi, used to publish masters of the genre like J. G. Ballard; still, during its first period, it has been reduced to the status of mere pop-low-level-cult series like detective stories and romance books. Yet, those latter genres had their post-modern re-evaluation that really didn’t involve sci-fi. Again, a dramatically committed author like Primo Levi was accused of having turned his back away from his past when he published his sci-fi collection of short stories Storie Naturali (Natural Histories, 1966) pervaded, on the contrary, of his experience in extermination camps. Last but not the least, a visionary writer like Guido Morselli, rehabilitated today, after the refusal of many of his manuscripts, feeling alienated from both literature and life, shot himself.

Why this hypertropia of realism? Why a hypothetic Italian J. G. Ballard wouldn’t have found a place in the literary scene of the 60s? Why all the important Italian prizes of nowadays (Strega, Campiello) seldom list sci-fi and utopian/dystopian titles – the latter often hybridized with humor and satire like in Il censimento dei radical chic (Radical-chic census, 2019) by Giacomo Papi? It’s a long story to tell through the limited word-count of an article. Yet, I can resume my hypothesis. The starting point is the period right after the Second World War, when Italian culture re-flourished after twenty years of fascism. Benedetto Croce was the guiding light of moderates, Togliatti and Adorno were those of left-voters. All those three points of view agreed, in fact, on refusing sci-fi and utopia/dystopia. It’s not new that Croce couldn’t stand sci-fi because of the low esteem he had of science itself and, for what concerns utopia/dystopia, he thought they were intellectual’s silly games – not even considering the political power of speculative fiction, as every significant change has to be imagined first. Togliatti, as secretary and a key figure of the Italian Communist Party, urged for a Zdanovian socialist realism focused on working-class stories of class struggle and written in a simple style that everybody could understand. Adorno then supported avant-garde literature as to him, after the Second World War, comprehensible, resolved, pleasant literature immediately degenerates into consumers’ literature. The human world changed for good after camps of exterminations and all-pervasive consumerism, so to Adorno the literature of the present that is written the traditional way represents a fraud, a reassuring veil over awkward changes. The philosopher feels deceived, particularly by US literature.

Cherry on top: disappointed and bitter fascists locked themselves up in a literary world of nostalgic dyschronias, focused on rewriting the past and unaimed in speculating about the future. In consequence, the first actual Italian dyschronia (meaning, a story with a point of departure on real chronology from which the alternative timeline starts) is called Benito I Imperatore (Benito I, Emperor, 1950) and Marco Ramperti, a fascist Jew-hater journalist, wrote it. Ramperti’s primacy certainly didn’t help the doubtful approach of antifascist intellectuals of the 50s and 40s to the utopian/dystopian/dyschronic genre, if we also consider that Benito I Imperatore was the first of a fortunate series of “fantafascist” novels. Yet, Italian literature didn’t just produce fascist dyschronias. It’s worth to remember two other examples: Guido Morselli, that in Contro-passato prossimo (Counter-past tense, 1975), wonders how a possible victory of the Triple Alliance could have neutralized the causes of the Second World War, and Luciano Bianciardi that in Aprire il fuoco (Open fire, 1969) overlaps Resurgence, Resistance and contemporary 1968 protests to remark sadly that those three movements were doomed to fail as no one of them dared to question the economic system. Italian dyschronias, whether fascist or anti-fascist, are less speculative than the Anglo-American ones: the general tendency is to look back at the past and dwell on it.

As sci-fi and utopia/dystopia/dyschronia have been discouraged for years, it doesn’t come as a surprise that cli-fi is seldom present, as a genre, in catalogs of Italian novels. Bruno Arpaia, formally the first important Italian author to write a cli-fi, made an excellent job in his Qualcosa là fuori (Something, out there, 2016) placing a social-realistic novel in the future and going beyond Benedetto Croce as the book dramatizes scientific paper’s predictions. Yet, a didactic, realistic cli-fi illustrating what’s likely to be the future it’s not the only possibility that this genre offers. Climate change is invisible, unperceivable and realism results inadequate to represent what’s outside human perception. A virus is invisible too, and only perceivable in terms of patients’ symptoms. A narrative perspective only interested in the human world and society, then, more often than not cuts off its view environmental themes – philosophical concepts, as Jeanette Winterson’s The Stone Gods, or iconic images like the oppressive environment of Ballard’s tetralogy: a character of those novels, on the same level of human beings.

Realism is an aesthetic mean that in the past often proved adequate to speak about the present. We have to consider the possibility that in the future it might not be entirely so, and the panic of those creatives I mentioned at the beginning of this article, in my opinion, represents a clear post-pandemic manifestation of the partial inadequacy of the omnipresent use of realism encouraged so far. Realism should stay an aesthetic choice, not an oppressive cognitive cage.

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