La carne agli ormoni e gli OGM: perché il free-trade mondiale prevale sempre su salute e ambiente?
Nel bilanciamento tra tutela della salute e libero commercio, è quest'ultimo che ha la meglio. Ma qual è l'interesse pubblico primario?
Nel bilanciamento tra tutela della salute e libero commercio, è quest'ultimo che ha la meglio. Ma qual è l'interesse pubblico primario?
Ci sono due casi, in verità ormai datati ma che fanno ancora scuola, decisi dall’Organo di aggiudicazione delle controversie (DSB) dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) che riguardano direttamente la sicurezza alimentare e la sua regolazione a livello extra-nazionale.
La prima decisione concerne l’utilizzo di ormoni della crescita nell’allevamento di capi bovini ed è del 1998. La seconda, relativa all’autorizzazione al commercio di organismi geneticamente modificati (OGM), del 2006.
Ormoni. Con la decisione EC-Hormones (EC – Measures Concerning Meat and Meat Products, WTO Appellate Body Report 1998, WT/DS 48/AB/R), l’Appellate Body ha fatto luce sui criteri con cui adottare misure che restringono il libero mercato per ragioni di tutela della salute. L’organo d’appello dell’OMC ha condannato l’allora Comunità europea a rimuovere il bando contro la carne bovina trattata con ormoni perché tale misura non era adeguatamente giustificata, in quanto non conforme ai parametri indicati in uno dei trattati istitutivi dell’OMC (Accordo SPS). Questi, infatti, richiedono una dimostrazione scientifica che dia adito ad una valutazione di un rischio almeno probabile, sul quale fondare la misura restrittiva. Per restringere il mercato al fine di tutelare la salute, gli Stati nazionali che hanno aderito all’OMC sono chiamati a dimostrare, almeno in termini di probabilità (per esempio: il 10%, l’1% o anche lo 0.01%), che si possa verificare un rischio per la salute. L’onere della prova in tribunale spetta agli Stati che restringono il commercio per tutelare la salute. Questi ultimi sono esentati da tale dimostrazione se si rifanno a standard internazionali ufficialmente riconosciuti (ossia quelli della Codex Alimentarius Commission). In tal caso la misura dovrà essere o conforme ad uno standard o almeno basarsi su questo standard. Altrimenti la dimostrazione dovrà adoperare valutazioni scientifiche.
Gli spunti di riflessione sono numerosi.
In primo luogo, troviamo dei limiti giuridici, di matrice globale o internazionale, alla discrezionalità delle autorità nazionali. Queste ultime non possono decidere liberamente che misure regolatorie adottare (neanche per tutelare beni pubblici fondamentali, come la salute), perché queste devono soddisfare determinati parametri stabiliti e sottoscritti in ambito internazionale.
In secondo luogo, vediamo che nel bilanciamento degli interessi tra tutela della salute e libero commercio, il secondo gode di una situazione privilegiata. Se uno Stato ritiene che un alimento o un prodotto possa essere nocivo per la salute è quest’ultimo che ha l’onere di dimostrare – e deve farlo scientificamente – che quel prodotto è rischioso. Poiché è molto difficile identificare un nesso di causalità tra prodotto ritenuto rischioso e rischio paventato i risultati sono sempre quelli di favorire il free-trade, anche a scapito della tutela della salute.
In terzo luogo, vi è un’armonizzazione internazionale delle regole a tutela della sicurezza alimentare, mediante standard che agiscono come norme tecniche, dettagliate, specifiche e concrete. Sono quelli della Codex Alimentarius Commission, citata in precedenza: queste consentono agli Stati di evitare la difficile dimostrazione scientifica del rischio. Ma chi stabilisce questi standard? E come? Sono proprio i delegati nazionali che, sulla base di studi scientifici, negoziano e approvano gli standard internazionali. Questi sono solo basati sui pareri di esperti, ma sono comunque il risultato di negoziazioni basate sui normali rapporti di forza all’interno della Comunità internazionale.
OGM. La decisione EC-Biotech (EC – Measures Affecting the Approval and Marketing of Biotech Products (WT/DS/291, 292, and 293), Reports of the Panel, Geneva, 29 September 2006), sugli OGM condanna la Comunità europea a rimuovere la moratoria contro gli organismi geneticamente modificati provenienti da Argentina, Canada e Stati Uniti. Dal 1998 al 2004, infatti, l’UE non ha mai fornito una risposta sulle richieste di autorizzazione al commercio di una serie di semi e prodotti geneticamente modificati. Inoltre, alcuni Stati membri, avevano palesemente vietato l’ingresso di alcuni di questi prodotti sul loro territorio.
Due sono gli aspetti rilevanti.
1. I criteri procedurali: il Panel contesta la moratoria perché avvenuta tramite ritardi, dinieghi taciti e omissioni. Le autorità competenti, interpellate per un’autorizzazione, si sono rifiutate di provvedere, violando alcuni principi fondamentali del procedimento e negando una risposta alle istanze di privati.
2. Il principio di precauzione. Il Panel nega che gli Stati possano adottare una decisione discrezionale quando adottano misure a tutela della salute che restringono il commercio, escludendo che possa essere applicato il principio di precauzione. Questo quindi non viene ammesso, in ambito internazionale (dove rimane solo una petizione di principio in qualche trattato ambientalista), dovendosi ogni volta dimostrare, con studi scientifici, la probabilità di un rischio.
In questa sentenza si rileva l’utilizzo di criteri procedurali e garanzie formali (globali), applicati ad amministrazioni nazionali o regionali (UE). Qui le autorità europee hanno sbagliato a non dare una risposta alle imprese che volevano importare OGM.
Un altro aspetto importante è la conferma del ruolo della tecnica nelle decisioni di regolazione pubblica, con l’esclusione del principio di precauzione, come eccezione al libero mercato e come strumento in grado di ampliare la discrezionalità delle autorità amministrative, invece che costringere le stesse a fornire valutazioni tecniche difficilmente affidabili in casi di estrema incertezza.
Entrambi i casi sollevano alcune problematiche, ancora irrisolte. Delle domande prive di risposte definitive.
Gli standard internazionali, che agiscono come norme tecniche, dettagliate, specifiche e concrete, che legittimità politica (e giuridica) hanno? Soprattutto quando sono il frutto di scelte, di dibattiti, di questioni discusse, non supportate dalla certezza scientifica. E quindi: quanta forza giuridica hanno nei territori nazionali e con che conseguenze?
Ci troviamo di fronte a dei limiti globali alla discrezionalità delle autorità nazionali. Le amministrazioni domestiche vedono ridotta la propria discrezionalità in determinati ambiti di intervento (tutela della salute e dell’ambiente) e sono tenute a sottomettersi a principi e criteri procedurali esterni, stabiliti da trattati internazionali e vigilati da un organo d’aggiudicazione internazionale. Ciò è dovuto a trattati internazionali, a suo tempo approvati e ratificati: ma è un meccanismo soddisfacente? E’ possibile sottrarsi a quei trattati? Perché, se gli Stati devono ubbidire alle norme internazionali sul libero commercio non sono vincolati da norme internazionali a tutela della salute e dell’ambiente? Perché, ad esempio, l’UE deve accettare prodotti dagli Stati Uniti che ritiene non sicuri, ma gli Stati Uniti non sono tenuti a rendere più sicuri quei prodotti?
Infine, interrogativi sorgono altresì sui criteri con cui si perviene, a livello extranazionale, al bilanciamento degli interessi tra tutela della salute e libero commercio: qual è, se c’è, l’interesse pubblico primario? Chi dovrebbe determinarlo?
In base a quali principi e con che procedure si effettua una ponderazione tra i due interessi?