Una delle poche certezze in merito alle cause del primo contagio agli esseri umani del virus Covid-19 riguarda il fatto che l’epidemia possa qualificarsi come una zoonosi, ossia una malattia di origine animale trasmessa agli umani (si veda, tra gli altri, https://www.iss.it/primo-piano/-/asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/id/5269233). A ciò deve aggiungersi che l’evento scatenante è dovuto al fatto che l’animale infetto, da cui tutto è partito, era stato esposto in un mercato per essere venduto come alimento. Di qui, si può dire che la pandemia che ha sconvolto il 2020 è strettamente collegata alla tutela della sicurezza alimentare, il che ci spinge ad alcune riflessioni.

In primo luogo, il problema di assicurare la tutela della salute in relazione al cibo si conferma essere quanto mai globale: se un sistema di food safety è inefficace, insufficiente o troppo permissivo in un qualsiasi luogo del pianeta, anche a livello locale, le conseguenze si potranno riverberare in tutto il mondo. È il cosiddetto effetto farfalla della regolazione pubblica, figlio della globalizzazione, per cui l’attuazione o meno di una politica pubblica in un luogo ha conseguenze in altri luoghi, anche lontanissimi. Queste possono colpire solo gli interessi commerciali (con restrizioni nei confronti del prodotto insalubre) e produrre danni contenuti e per lo più di natura economica; oppure – ed è bene sottolinearlo anche se ognuno di noi lo ha sperimentato in questi mesi – le conseguenze possono invece riguardare la salute delle persone, con danni enormi, di vario genere (alla vita dei singoli individui, così come alle economie di intere nazioni).

Secondo: se il problema è globale, anche la soluzione deve esserlo. La globalizzazione delle merci e gli scambi commerciali su scala mondiale presentano ancora problematiche irrisolte: si pensi semplicemente al cosiddetto dumping sociale e ambientale causato dalla competizione tra stati per attrarre multinazionali che delocalizzano la produzione o la race to the bottom per cui le imprese, per produrre beni a costi sempre più bassi e aggredire i mercati stranieri, riducono sempre di più gli standard qualitativi, di sicurezza e di tutela dei lavoratori.

Nondimeno, appare anacronistico e illogico un percorso di deglobalizzazione, a partire dalla rinuncia a qualsiasi commercio extra-nazionale, a vantaggio di un’improbabile autarchia degli stati. E ciò a dispetto del fatto che nel breve periodo le misure di contenimento del virus sono state e sono ancora tutte prevalentemente domestiche. Ma se si guarda a una prospettiva più lunga, se si considerano le conseguenze indirette dell’epidemia e se si mira a prevenirne di nuove, la governance del fenomeno deve essere impostata su scala mondiale. E quindi con un maggiore e più efficace sviluppo di strumenti che sono già a disposizione: norme e misure di regolazione comuni, istituzioni sovranazionali, sistemi amministrativi e di giurisdizione mondiali, meccanismi di coordinamento e collegamento fra Stati o fra regioni di Stati.

In terzo luogo, se gli strumenti giuridici per una governance comune del fenomeno già esistono e vanno rafforzati, in quale direzione dovremmo farlo? Ossia, con quali contenuti e con quali finalità? Il livello di tutela della salute da prodotti alimentari – che naturalmente ha un costo e comporta sacrifici per altri settori (più saranno rigide le norme e più saranno intrusivi i controlli, più costi dovrà sostenere l’industria alimentare nella produzione e nel commercio dei prodotti) – deve essere più elevato di come è oggi e l’armonizzazione di principi, regole, standard e approcci regolativi deve essere raggiunta secondo parametri di maggiore attenzione alla salute rispetto a quelli attuali. Questo obiettivo non è solo una diretta conseguenza della pandemia del Covid-19, ma deve essere la risposta necessaria a un modello che a oggi si dimostra ancora inefficace nella tutela della salute mondiale. Per fare questo occorre una precisa volontà politica che sinora è mancata: i decision-makers globali saranno in grado di elevare il livello di tutela della food safety su una scala così ampia? Saranno – questo è bene evidenziarlo in modo chiaro – in grado di sacrificare alcuni vantaggi economici derivanti da standard di sicurezza bassi a vantaggio di una maggiore (e più costosa) tutela della salute basata su standard più elevati?

Le problematiche esposte richiederebbero l’intervento delle cosiddette istituzioni globali (organizzazioni internazionali, UE, ma anche gli Stati) per approntare riforme e innovazioni che scongiurino le future pandemie. Qualcosa si sta muovendo e qualche proposta la faremo anche noi, prossimamente, proprio su questo blog.
Ma cosa può fare il singolo, sempre più solo in questo scenario apocalittico in cui molte decisioni che lo riguardano vengono prese al di sopra della sua testa?

Per prima cosa: informarsi. Leggere, documentarsi, ragionare su come si svolgono determinati fenomeni.
Qualcosa di più dettagliato diremo nel prossimo post. Intanto, provate a navigare sui siti istituzionali (della FAO e dell’OMS, soprattutto).
Tra le varie pagine, permettetemi di consigliarvi due link:

  1. Qui c’è un rapporto dettagliato sul tema, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/pdf/rapporto-covid-19-17-2020.pdf
  2. Questo è invece un link dell’OMS, che riguarda la giornata mondiale della sicurezza alimentare, che, come sanno in pochi, si celebra ogni anno il 7 giugno. E ovviamente si è parlato anche di Coronavirus: https://www.who.int/news-room/campaigns/world-food-safety-day/2020.

Infine, anche questa volta vi consiglio un libro: Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, a cura di Eric Holt Giménez, Raj Patel e Annie Shattuck, Slow Food Editore, Pollenzo (Bra), 2010.

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