Le case dei poeti sono chiese e le loro poesie preghiere, suppliche, oracoli. Cosa daremmo per ritrovare le poesie giovanili, scritte a penna su fogli a righe. Le poesie dei vent’anni perdute, dimenticate, stracciate, cancellate, ridicole, sfrontate, copiate, vogliose di tempesta e cariche di pioggia a forma di vita.

Quella febbre di vita desiderata da due occhi scavati in un buio di rimmel, gli occhi di un giovanissimo Carmelo, è una ferita che squarcia un Sud magico e violento che filtra luce d’infinito dalla crepa di inquietudini e fragilità, commozioni, fughe e approdi esistenziali.

Ho sognato di vivere di Carmelo Bene, pubblicato da Bompiani, passato quasi in silenzio, è una profezia, un dono prezioso per la poesia italiana, reso possibile grazie al ritrovamento e alla cura dei manoscritti inediti e originali di suo nipote Stefano De Mattia, figlio della sorella Maria Luisa e con la supervisione di Salomè, figlia di Bene.

Una raccolta che ci consegna un Carmelo Bene laicamente carmelitano con le sue suppliche contemplative di un Meridione sacro e maledetto. Versi, composti fra i tredici e ventuno anni, che rivelano

“un’omerica grazia […] età dell’oro di un giovane Apollo che scorge come un futuro ineluttabile la nascita di una divina tragica commedia”

come scrive Filippo Timi nella prefazione.

“Spettacolo/triste i miei sensi/dalla tua indifferenza/sbattuti qua e là, /vecchie carte sospinte/dal vento su di un viale/dimenticato!”.

Fa tenerezza il giovane Carmelo che si chiede dove andare, che non teme la fine, vuole sapere, pronto a viaggiare oltre la coscienza in quella mistica, divinazione e dolce condanna che è il talento dei poeti.

Quante volte la mia generazione ha desiderato conoscere il Maestro. Leggere queste poesie è l’occasione per lasciare che Carmelo si appoggi alla nostra spalla per sentire le sue paure, le sue insicurezze, i tremori dei primi amori, l’inchino dinanzi al bacio della morte che sfida la fine per vivere ancora.

“E noi vivremo/anche se il cuore va cercando/pace:/quando il chiasso dei vivi/parrà assordarci/e grideremo: basta!”.

Sarebbe bello sentire dire questi versi (le poesie non si declamano, non si leggono, non si recitano, semplicemente si dicono) da Alessandro Haber. L’unico che si può permettere di osare tanto. Haber mi ha raccontato che con Carmelo Bene avrebbero dovuto portare in scena il Don Chisciotte di Cervantes.

Vecchio progetto caro a Carmelo Bene, già sfumato nella versione immaginata con Eduardo De Filippo e Salvador Dalì. Maledetta morte che si porta via i poeti. Cosa abbiamo perduto. Il Carmelo della fine assomigliava al Bene adolescente, nel mezzo la fonetica.

Un artista che ha bruciato i libri e li ha riscritti, ha imparato a memoria il ballo di San Vito, un aedo cannibale di tarantole e zombi. Avrebbe voluto ritrovare la dignità dell’ignoranza in quella miseria dell’uomo piegato sotto al sole, perso nel Sud dei Sud dei Santi senza più miracoli e ritorno.

Tutto questo accadeva mentre il Carmelo più vigoroso e feroce, dimenticate le poesie giovanili, cercava di tornare al rumore della voce con la Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli. La poesia dell’Alighieri come resistenza contro la strage fascista della stazione di Bologna.

Senza la paura di nascere ancora per incontrare nuovamente i suoi demoni che intanto assumevano le sembianze del Ministero degli abusi serrando la verità del teatro vestita da un’arte mancata che non valeva una fantasia di Maradona.

Carmelo Bene ancora scappò dai mediocri esiliandosi per tornare bambino. Carmelo non credeva al demonio cattolico, aveva una piuma da demone caduto per consolare la morale nella lotta continua con Amleto.

Il suo tendere al genio cercando di vivere e per vivere doveva smettere di vivere e meritarsi la follia. “Perché il sole non brucerà le acque!” scrive nell’epilogo apocalittico di E verrà un’ora.

Per il giovane Carmelo Bene la vita è anche cancrena, su quei “vent’anni che sfoglia la terra”. Ritrovarsi dinanzi queste poesie è come bere dalla prima tavolozza dai colori ancora freschi di Modigliani, assaggiare il marmo di Michelangelo prima della Pietà, la disperazione di Kurt Cobain quando da bambino sua madre gli ingurgitava il ritalin che anni dopo avrebbe sputato cantando “Something in the way”.

E poi arriva la magia e il tormento del Salento con il soffio del suo scirocco, il vino, la salvia, le lucciole, i conventi, il mare –

“E’ una musica d’ali che ti trova e ti danna. E ti lascia così […] Meridionale Agosto. Girasoli ubriachi./ e il gatto sembra morto. /Vecchiaia e giovinezza intrecciano/ sogni come canne dei bambù./”.

Quanta malinconia in questi versi, quanto fuoco, quanta voglia di scappare dal Sud. Quanta voglia di tornare a Sud. La vita di Carmelo poi è stata come una Turandot incompiuta:

“Tutto è bianco: domani avrò sonno/ e di te dormirò/ di quello che non volle seguirti”- scrive in “Te ne vai”.

Ancora una presenza oscura che spacca l’amore in Poi la notte:

“Piove su vita e morte, perché uno/ è l’amore”.

Un presagio costante di morte e amore in Profezia triste:

“e una pioggia di fiori/coprirà le mie ossa;/ma la rosa che graffiò/ il mio cuore, non bacerà/ il mio tumulto”.

Ma dove sono gli accademici? I critici letterari? L’Italia dovrebbe istituire le celebrazioni di Stato per il ritrovamento di queste poesie, riscrivere le antologie scolastiche, ridisegnare la mappa dei poeti del Novecento. Questo è il parto di Baudelaire. Poesie come balia e latte fresco del teatro che Bene è stato dopo.

“Arsi i peccati, il mio spirito/bacerà l’eterna primavera”.

Ho sognato di vivere è la biografia incosciente di Carmelo Bene, madre di quella che verrà negli anni ottanta dal titolo Sono apparso alla Madonna in cui Carmelo non ricorda la sua vita ma immagina con potente sincerità il suo paradiso perduto ed atteso. Nessuna traccia delle poesie giovanili, ma l’intenzione di vino, ulivo e tabacco è la stessa.

E scopriamo che Carmelo Bene non è solo apparso alla Madonna ma è stato anche avvistato, nel suo flusso di parole piene di suoni e gravide di silenzi, anche dalla Trinità in un tramonto mancato, fuori da se stessi per riconoscersi in un déjà-vù insieme a Shakespeare e Artaud.

E’ dolce, romantico, fragile il Carmelo di queste poesie, chinato dinanzi al creato solo per parlare ai fiori, senza la crudeltà di reciderli, cogliendo solo more e mirtilli, sacrificandosi per loro perché

“i rovi ti strapparono/ il vestito; a me graffiarono/ il viso! Provai a cogliere un ramo/ d’ulivo che non volle/ spezzarsi. Andammo per la stessa strada”.

Carmelo Bene, con le sue poesie, tenta di curvare il cielo senza strapparlo per sognare di vivere e dare senso alla stessa divinità a cui rivolge una preghiera. Perché per Carmelo non è importante l’esistenza di Dio ma la sua ricerca, è questo che cercava Narciso nel lago, affondando lento nella morte per andare a fondo dell’esistenza:

“A scontare/ abbandoni nell’inesistente/il mio pensiero ed io:/vittime sole!/ Dio, fa che tristezza/ non mi abbandoni!”.

Non ho mai creduto alle sedute spiritiche, ma queste poesie rimbalzate dal passato, da un tempo parallelo, che si ora si fanno vino di sangue e pane di carne spezzato, sono una presenza evocata necessaria. In un’epoca in cui la poesia è derisa, calpestata, umiliata, il fantasma di Carmelo Bene torna perché non se n’è mai andato.

Stretto in quelle pagine stampate della sua opera omnia, copiato, violentato, classificato, classicizzato. Ed ecco un terremoto dal profondo abisso che stiamo vivendo torna dalla Madre Terra, con parole d’amore e ciliegie:

“So che il sole berrà l’acqua del fiume; che i campi saranno/d’oro e i camosci/cercheranno le tane: che piangerà ancora; ma non so dove sarai/ nella stagione/ delle ciliegie!”.

Ansia, insofferenza, l’arte dell’angoscia, la bestia e il bambino, la profondità di un teologo, di un filosofo, di un poeta che ha conosciuto il paradiso vivendo all’inferno ed oggi vaga nel limbo e che a quindici anni già sognava:

“Io cerco un nome: per poter dire: io esisto!/ Un giorno avevo un nome: l’ho perso per dimenticarmi. Ora, per ritrovarmi, io cerco un nome!”.

Carmelo è tornato.

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