Nel corso degli ultimi due o tre decenni abbiamo avuto modo di conoscere in modo molto approfondito come funziona, quali caratteristiche presenta e che conseguenze (molte delle quali a dir poco nefaste) ha la cosiddetta agricoltura industriale o agro-industria. Un ossimoro, da un certo punto di vista, ma anche l’inevitabile approdo di un sistema produttivo – quello alimentare – divenuto sempre più grande, sempre più strategico e sempre più redditizio.
Sono aumentati i consumi ed è aumentata la produzione, con l’impiego di strumenti, macchine e sostanze artificiali che consentono di produrre cibo in grandi quantità e di superare o limitare quello che per anni è stato un grave vulnus del sistema agricolo, ossia l’imprevedibilità e spesso l’inclemenza del clima e delle condizioni naturali ove si produce. Oltre a permettere una produzione seriale e abbondante.
Tuttavia, come detto, questo modello presenta anche conseguenze negative. Ad esempio, gli allevamenti intensivi – per citare solo una delle pratiche più diffuse della cosiddetta agro-industria – hanno un peso molto rilevante sull’inquinamento di terre e acque e nell’alterazione del clima, oltre ad aver causato migliaia di morti, oltre che ingenti danni economici, per aver favorito la diffusione di epidemie come la BSE, la Salmonella DT 104, l’Escherichia coli 0157, ecc. (sul tema si veda ad esempio il breve contributo video fornito dalla trasmissione Indovina chi viene a cena; e la puntata di Report del 13/04/2020).
A conferma di quanto appena affermato, basti riportare che da vari studi internazionali risulta che almeno il 25% delle emissioni di CO2, sono prodotte da fonti agricole, fra le più importanti la deforestazione, l’uso di fertilizzanti ricavati da fonti fossili, e la combustione di biomasse (climate.org). In Italia, uno studio dell’ISPRA ha calcolato che le emissioni di gas a effetto serra in agricoltura negli ultimi 25 anni sono state, in media, di circa 30 milioni di tonnellate all’anno (Ispraambiente). Sul tema, si veda anche il rapporto del Barilla Center for Food and Nutrition, Agricoltura sostenibile e cambiamento climatico, 2012, Barilla.
Sui pericoli derivanti dall’agricoltura industriale, ancora con riferimento all’epidemia del Covid-19 riporto una frase emblematica del biologo evoluzionista Rob Wallace, autore nel 2016 del libro Big Farms Make Big Flu: “il vero pericolo di ogni nuovo focolaio è costituito dal rifiuto di capire che il CoViD-19 non è un incidente isolato. L’aumento della presenza di virus è legato alla produzione alimentare e al profitto delle multinazionali. Chiunque miri a capire perché i virus stanno diventando sempre più pericolosi deve indagare sul modello industriale dell’agricoltura e, più specificamente, della produzione zootecnica. Ma ora, pochi governi e pochi scienziati sono disposti a farlo” (qui l’articolo che la riporta: Slow Food).
E tuttavia, qui si vuole proporre una lettura diversa di tale fenomeno. Infatti, più che riflettere sugli effetti negativi sul clima, sulla salute o sulla qualità degli alimenti, che pure ci sono, occorre chiedersi: abbiamo veramente bisogno di un sistema di produzione agricolo a carattere industriale? Si può almeno ridurre e rendere meno distruttivo? Come e con che costi? E con quali vantaggi o inconvenienti?
In questo articolo vorrei insistere specificamente su questa domanda perché la maggior parte delle inchieste e delle riflessioni su questo tema, specialmente negli ultimi anni (incluse quelle citate in precedenza), si concentrano quasi esclusivamente sui danni che l’agricoltura e l’allevamento intensivo fanno all’ambiente, alla salute animale e a quella delle persone. Senza contare la perdita di qualità e la standardizzazione dei prodotti. Ma nel riflettere su queste conseguenze, dobbiamo sempre fare i conti con l’avvocato del diavolo e quindi immaginare la risposta che ci darebbero i sostenitori dell’agro-industria, che, allargando le braccia, sconsolati, reciterebbero il solito mantra: eh, ma come facciamo a rinunciare a una produzione alimentare così elevata e a così basso costo? Come li sfamiamo i 7 miliardi di persone che popolano il mondo?
E allora dobbiamo chiederci: è veramente così?
È su questo, a parere di chi scrive, che occorre concentrare l’attenzione: che questi sistemi produttivi siano dannosi, nocivi per ambiente e salute, crudeli con gli animali, ormai è risaputo. Lo sanno anche quelli che sono a favore. La domanda è: possiamo rinunciarci o renderli almeno diversi e meno dannosi? Articolerò la risposta in tre punti, così nominati: sfamare gli affamati; quantità e qualità; regole, divieti e controlli.
Sfamare gli affamati. In primo luogo, occorre smentire un dato: non è vero che la grande produzione agro-industriale serve a sfamare il mondo e a diminuire malnutrizione e denutrizione. Secondo l’International Fund for Agricultural Development (IFAD), le piccole aziende agricole a conduzione familiare dominano i paesaggi rurali in tutto il mondo in via di sviluppo, rappresentando fino all’80% del cibo prodotto in Asia e nell’Africa subsahariana, offrendo al contempo mezzi di sussistenza fino a 2,5 miliardi di persone (Bonny, S., Corporate concentration and technological change in the global seed industry, in Sustainability 9.9 (2017): 1632). La FAO stima che oltre il 75% dell’aumento della produttività delle colture degli ultimi 30 anni sia il risultato dell’allevamento delle piante, tradizionalmente posto in essere da piccoli agricoltori. La FAO spiega anche che, nonostante il suo valore commerciale, la catena alimentare industriale produce solo il 30 per cento dell’approvvigionamento alimentare globale, ma utilizza il 70 per cento delle risorse agricole del mondo. Inoltre, il 75% dell’agro-biodiversità è stato sostituito da un piccolo numero di varietà geneticamente più uniformi. Al contrario,gli allevamenti di piccoli agricoltori e la rete alimentare contadina forniscono il 50 per cento dei cereali del mondo, il 60 per cento della carne del mondo e il 75 per cento dei prodotti lattiero-caseari del mondo, utilizzando solo il 30 per cento delle risorse agricole del mondo (A.M. Loconto – O.O. AdeOluwa – Y. Akinbamijo (eds), Achieving social and economic development in Africa through ecological and organic agricultural alternatives. Proceedings of the Plenary presentations of the 3rd African Organic Conference, 5–9 October 2015, Lagos, Nigeria, Food and Agriculture Organization of the United Nations and African Union Commission, Rome, 2018). Anche la sezione sul sito della FAO, dedicata al Family Farming (che abbiamo già citato qui) offre la conferma che per sfamare il mondo non occorre l’agricoltura industriale.
Quantità e qualità. Se, da un lato, la quantità di cibo prodotta non deve essere sottovalutata perché è chiaro che solo garantendo l’accesso a costi ragionevoli a un quantitativo importante di alimenti si possono sfamare i numerosi abitanti del pianeta, dall’altro, tale ammontare non può e non deve essere barattato con la qualità degli stessi beni alimentari. Questo perché non solo il diritto ad un cibo adeguato – nutriente, sano, in grado di sfamarci – è un diritto fondamentale, come enunciato in più occasioni dalla FAO e dalle vari istituzioni competenti sul tema, ma anche perché garantire l’approvvigionamento di cibo insalubre è assolutamente controproducente, perché fa aumentare la malnutrizione, invece di diminuirla. E ciò in entrambi gli emisferi del mondo: quello ricco, con l’obesità, e quello povero, con la denutrizione e la diffusione di patologie. È, inoltre, possibile produrre grandi quantità di cibi sani, buoni e con costi contenuti. A riguardo, rinvio nuovamente ai rapporti sulla produzione agricola di piccola scala, citati in precedenza.
Regole, divieti controlli. Infine, è possibile controllare, limitare e regolare l’agricoltura industriale mitigandone gli effetti più negativi. Ma per farlo occorrono il coraggio e la volontà della politica. Alcune sostanze (come i diserbanti chimici più nocivi) devono essere vietati. Le condizioni con cui vengono allevati gli animali possono essere disciplinate, ad esempio imponendo spazi più ampi, regole igieniche rigorose e divieti di luoghi chiusi per la custodia degli animali destinati all’alimentazione. Inoltre, come già indicato (qui), la diffusione – tramite etichetta – di alcune informazioni deve essere resa obbligatoria: in questo modo, come consumatori, potremmo essere consapevoli di cosa stiamo mangiando e di come tali cibi vengano prodotti.
Cosa possiamo fare noi come individui? Comprare locale e a km zero, ridurre (pur senza eliminarlo del tutto, per i non vegetariani) il consumo di carne, leggere con attenzione le etichette, essere disposti a pagare qualcosa in più per alimenti sani, nutrienti e – non dimentichiamolo – buoni. E naturalmente possiamo informarci, per esempio così: Il nostro pane quotidiano (Unser täglich Brot), documentario del 2005 (Il fatto quotidiano; agireora; Youtube).