Quando ho chiesto ad Eugenia Romanelli di poter avere un mio blog qui su Rewriters l’ho fatto principalmente per due motivi: il primo riguarda il mio impegno nella sensibilizzazione e nella divulgazione dei temi relativi alla salute mentale per contribuire ad abbattere lo stigma di cui io stessa sono stata, e sono, vittima tante volte.

Il secondo motivo è relativo al concetto che è alla base di questo magazine e cioè quello di riscrivere l’immaginario: mi piaceva molto l’idea di raccontare tutto ciò che ruota intorno al tema della mente e della psicologia, partendo da un punto di vista del tutto personale e di chi alcune situazioni non le ha solo approfondite ma le ha vissute trovandosi proprio al centro e avendo una visione da un punto inusuale per molti.

Il perché della mia assenza

Questa premessa è per provare a spiegare il perché della mia assenza in questo mese e mezzo. Io non sono una professionista della salute mentale, sono una paziente. Non ho ancora terminato il mio percorso di recovery e non è detto che lo terminerò a breve. E, come spesso accade quando si raccontano esperienze di vita nel momento stesso in cui le si sta vivendo, capita che siano proprio quelle esperienze a impedirti di continuare il racconto in modo costante.

Il punto di vista del mondo di oggi ci vuole estremamente performanti, sempre sul pezzo, con scadenze precise e un tempo che scorre a velocità 2x. E questo è, o era, anche il mio punto di vista, il punto di vista di Alessandra studente, militante, lavoratrice, amica, figlia, sorella e tutto il resto.

Il buio nella testa di un’impanicata

Ma non è, evidentemente, il punto di vista dell’Alessandra impanicata e/o depressa e questo non è un punto di vista che io posso ignorare. E allora capita che ad un certo punto io debba fermarmi e dare lo spazio e il permesso a quel punto di vista. Che debba necessariamente continuare a vivere parte della mia vita, quella degli obblighi e dei doveri, ma che sia costretta a mettere in stand-by il resto perché non mi è possibile fare tutto.

Siamo onesti, non mi sarebbe costato molto pubblicare un paio di pezzi in questo periodo, magari brevi o scritti male, per mantenere il mio standard di performance. Ma che credibilità avrei se scrivessi pezzi come quello sul fallimento o sulla consapevolezza e poi mi costringessi a non mostrarmi, e mostrarvi, quanto quelle parole siano reali?

Se riscrittura dell’immaginario deve essere, allora riscrittura dell’immaginario sia e se nell’immaginario comune non ci si può fermare, nel mio, di immaginario, il farlo non deve rappresentare un problema per il resto del mondo.

Ora che sono tornata dal buio non assicuro di non fermarmi più, so perfettamente che avere l’onore di scrivere su questo blog necessita di un impegno, ma so anche che se mi si è data la possibilità di scrivere di salute mentale e delle fragilità che essa si porta dietro è giusto che io le viva e le racconti per quello che sono, senza fronzoli e senza scuse.

Ecco perché vi suggerisco due canzoni di Niccolò Fabi, perché descrivono perfettamente questo tipo di situazione: I giorni dello smarrimento e L’uomo che rimane al buio. Avrei potuto pubblicare direttamente, senza premessa, e probabilmente mi sarei risparmiata l’assenza e questa esposizione estrema, ma la verità è che, nonostante esistano molti modi per dire le stesse cose, il più delle volte, siamo noi che non siamo in grado di capirle finché non ci vengono spiegate con chiarezza.

“Sono i giorni dello smarrimento
I giorni senza desideri
Degli eventi in controtempo
Senza un ruolo nel reale
Degli occhi chiusi contro il sole
In attesa di un barlume
Quando non senti più calore
Ed il vuoto ti assale”
“L’uomo che rimane al buio troppo a lungo
Finisce per parlare con l’oscurità
Ha una mano sempre pronta per coprirsi gli occhi
Quando la luce tornerà”
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