In un tempo strano e sospeso, accompagnato da una inaspettata pandemia, lockdown e letture, volti distanti e affetti lontani, emozioni e timori condivisi, nell’assenza ritrovo il mio corpo, nella terra che vivo.

Avevo dimenticato quanto fosse duttile la mia ombra riflessa sulla terra, compressa in una fissità che le impediva di esserci davvero, dentro il suo stesso corpo, il corpo della terra. Alla prima passeggiata dopo il lockdown, sotto un manto trasparente di luce naturale, a respirare profondamente ossigeno e sentire l’odore del vento, rieccola, lunga, schiacciata, distorta, frenetica, lenta, immobile, libera, dilatata dai raggi del sole e immersa nella luce della terra. Quasi mi intimorisce, la mia ombra, sono io e fa altro da me, non riesco a controllarla. Inizia a saltare felice, correre verso la distesa silente del mare e inebriarsi d’azzurro, in assoluta empatia con ciò che apparentemente è altro da me, ma è in me, è il luogo in cui vivo che diventa il luogo che vivo.

Sommersa da una continua sovraesposizione mediatica, viva “in un mondo trasformato a tal punto da incontrare dappertutto strutture di cui noi stessi siamo gli autori (…), di modo che l’uomo incontrerà solo se stesso” come ci ricorda Heisenberg, io stessa sono diventata, nel tempo, perdita della comune appartenenza al mondo. Sino a quando sono arrivati, prorompenti, loro: la mia ombra e un libro Il corpo della terra. La relazione negata (ed. Castelvecchi), che diventa rivelazione e consapevolezza di ciò che sono, che siamo, che dovremmo essere, corpo nella terra e corpo della terra: lettura bella e profetica, in tempi così duri e surreali.

“Lo sviluppo della coscienza e la conseguente costruzione del nostro senso di identità avvengono all’interno della relazione di Sé con l’Altro, relazione alla quale siamo predisposti in virtù di disposizioni innate selezionate dall’evoluzione e, dunque, strettamente connesse all’ambiente naturale che ci accoglie e che ci ha accompagnato nella nostra storia evolutiva”: leggo avidamente, e sento la mia ombra scalpitare, trait d’union tra il mio io più autentico e l’ambiente che mi accoglie, dentro una relazione che diventa essenza di sé dentro l’altro, identità consapevolmente emotiva, rivelazione autentica. E risuona dentro di me una citazione di Martin Buber che trovo nel libro: “Diventa Io dicendo Tu”, che regala senso e pienezza.

Il tema riguarda tutti: noi siamo parte del corpo della terra, e stiamo scegliendo di lasciarlo e lasciarci morire: c’è un’alternativa possibile?
Il libro, costituito da numerosi saggi di autorevoli autori e autrici, è un contributo fondamentale, una risposta forte, corale, scientifica ed empatica, poetica e rigorosa insieme al tema ambientale che non può più essere disatteso, e chiede di essere affrontato seriamente. Molto più che uno spunto di riflessione, piuttosto un caleidoscopio di prospettive percorribili e condivise nel segno della conoscenza, del rispetto, dell’armonia e della tutela del Pianeta di cui siamo parte, senza continuare ad esserne padroni e predatori, ma piuttosto custodi e tutori.

Rory Cappelli, Giornalista di Repubblica, Guido Giordano, Professore Ordinario di Vulcanologia presso l’Università Roma Tre, Pietro Dalpiaz, Professore Emerito di Fisica Sperimentale dell’Università di Ferrara, Luisella Battaglia, Professore ordinario di Filosofia Morale e di Bioetica all’Università degli Studi di Genova, Silvia Peppoloni e Giuseppe Di Capua, rispettivamente Ricercatrice e Geologo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Lucina Caravaggi, Professore Ordinario di Architettura del Paesaggio del DIAP (Sapienza Università di Roma), Sebastiano Maffettone, Professore Ordinario di Filosofia Politica presso la LUISS Guido Carli, Livio De Santoli, Professore Ordinario di Energy Management alla Facoltà di Ingegneria (Sapienza Università di Roma), Gianluca Senatore, Ricercatore e professore di Sociologia dell’Ambiente e della Sostenibilità (Sapienza Università di Roma), Dario Bevilacqua, Giurista, Professore associato di Diritto Amministrativo e Funzionario del Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, Federico Zuolo, Ricercatore in Filosofia Politica all’Università di Genova, Giusy Mantione, Psicologa Clinica presso il Centro De Sanctis di Roma, di cui è cofondatrice, e Docente, Domenico Chianese, Psicoanalista della SPI,  Toshio Kawai, Direttore del Kokoro Research Center di Kyoto, Antonio Di Rienzo, vicepresidente dell’AIPA, Cosimo Schinaia, Psichiatra e Psicanalista, membro della SPI, Marcello Di Paola, Docente di Environmental Studies presso la Loyola University of Chicago JFRC e di Filosofia Politica e Sostenibilità presso la Luiss di Roma, le tante penne dei paper contenuti nel libro, insieme alle curatrici Eugenia Romanelli, giornalista e scrittrice, e la già citata Giusy Mantione, riscrivono nel segno del rispetto e dell’amore la nostra relazione con il corpo della terra, una relazione non più negata con un corpo che non può più essere violato.

Negare questa relazione, questo senso di appartenenza, significherebbe negare una parte fondante della nostra stessa identità, nella consapevolezza che oggi la nuova sfida sembra essere quella di superare la separazione dell’individuo dal suo ambiente. Come esseri umani abbiamo il compito di chiederci come mai gli esseri viventi sulla Terra, pur avendo raggiunto la punta più alta dell’evoluzione, non sembrano capaci di trovare forme di adattamento all’ambiente che siano in grado di garantirne la salvaguardia, mettendo piuttosto a rischio la stessa sopravvivenza. Negare questa relazione significa lasciare la terra, progettare persino di colonizzare altri ambienti del Sistema Solare, come Marte il pianeta rosso, diventare noi stessi altro, negare la nostra identità: perché tra diniego e negazione del corpo della terra che continuiamo a violare distruggendolo, urge poi garantire la sopravvivenza di una specie dentro un ambiente di cui disconosciamo il valore e percepiamo altro da noi, rischia di lasciarci orfani altrove, un altrove che potrebbe diventare annullamento del senso e negazione di una relazione da cui dipende il nostro stesso Esserci.

Bauman e Harari aleggiano tra le pagine assieme a tanti altri autori espressamente citati, tra neuroscienza, fisica, geoetica, psicologia, ecofemminismo, movimento ecologista, animalismo, giornalismo, fotografia, architettura, storia e filosofia, buddismo, concorrendo  a costruire questo saggio come fosse un puzzle che ricompone un corpo, quello della terra, di cui facciamo parte: Sebastiao Salgado, Greta Thunberg, Daisaku Ikeda, Aldo Leopold, André Corboz, Edward O. Wilson, Geoffrey Chew, Marshall McLuhan diventano essi stessi corpo di un approccio al tema volutamente multidisciplinare, colto e settoriale, ma insieme accattivante e divulgativo.

“L’essere umano ha sempre trovato nel suo ambiente naturale le risorse per la sua sopravvivenza, i passi che oggi stiamo compiendo verso la negazione di questa relazione a vantaggio di una cieca onnipotenza e di una cultura sostanzialmente “egologica” e individualista devono portarci a riflettere e ad allargare i confini dei contesti clinici e terapeutici sino a ricontemplare la nostra appartenenza al mondo della Natura” (cit. Giusy Mantione) è l’assunto cardine del libro, archè condiviso di tutte le riflessioni.

Perché questo sia possibile, è necessaria una maggiore giustizia distributiva dell’energia, soprattutto rinnovabile, e delle risorse contenute in questo corpo, senza continuare a depredarl. E’ necessario coltivare una visione ecosostenibile e democratica che diventi patrimonio operativo anche dei governi della terra, nel rispetto degli obiettivi di coesione sociale e territoriale e dell’energia come diritto fondamentale di tutti contenuti nell’Agenda 2030; una visione che sia patrimonio di tutti noi, custodi responsabili dell’ambiente inteso come bene comune e portatori di consapevolezza del cambiamento nella gestione del corpo della terra, di cui siamo parte, tramite la scuola, la formazione e la cultura, nella creazione di un nuovo paradigma condiviso che dobbiamo lasciare in eredità alle nuove generazioni, come Friday for Future a altri giovani movimenti ecologisti continuano a chiederci.

Riscrivere il corpo della terra con un linguaggio che sia foriero di nuove visioni e atti concreti: Re-writers, come noi siamo, come Re-member, consapevoli del fatto che il linguaggio non coincide con tutto ciò che c’è, ma che un nuovo linguaggio può contribuire a creare una nuova identità tra uomo e ambiente, nel rispetto del bene comune che abitiamo. “Il corpo della terra” riesce ad essere tutto questo, una nuova chiave di lettura del mondo che viviamo che diventa nuova visione, nel ri-cordare, ri-scrivendolo, ciò che siamo senza negare la relazione con il mondo che viviamo.

“Solo dopo che l’ultimo albero sarà abbattuto, solo dopo che l’ultimo lago sarà inquinato, solo dopo che l’ultimo pesce sarà pescato, voi vi accorgerete che il denaro non può essere mangiato” (TORO SEDUTO, capo della tribù dei Sioux): non lo dimenticherò, non possiamo più dimenticarlo.

Non è solo la ragionevole prudenza nella valutazione del rischio di perderci perdendo il mondo che deve farci agire. E’ soprattutto la consapevolezza che mutare un’ottica egocentrica in una dinamica relazionale e cooperativa tra noi, homo sapiens, e la terra che viviamo, consapevoli del fatto che, parafrasando Freud, “fuori da questo mondo non possiamo cadere”, è l’unica ri-scrittura possibile.
Lettura davvero fortemente raccomandata.

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