Violenza sessuale, stigma, consenso, sistema patriarcale, molestie, vergogna, dubbio, manipolazione forzata, debolezza. Sono alcune delle parole che generalmente vengono in mente pensando allo stupro e alle sue dinamiche.
Purtroppo, sappiamo che la violenza sessuale è un fenomeno diffuso e sistemico in tutto il mondo. La violenza usata come forma di sopraffazione o come arma di guerra utile per minacciare e indebolire le fasce di popolazione più deboli.

Le vittime spesso non conoscono i propri diritti e si trovano di fronte a molteplici ostacoli, nell’accesso alla giustizia, stereotipi di genere dannosi, idee sbagliate su violenza sessuale, accuse di colpevolezza, dubbi sulla propria credibilità, sostegno inadeguato e legislazione inefficace.

In Italia, in particolare, persiste il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. È come se la colpa di una simile violenza fosse unicamente da ricondurre alla condotta della donna. Questo avviene a causa della cultura dello stupro che da secoli minimizza la violenza sessuale fino al punto di normalizzarla come se fosse un fatto ineluttabile.

Sono decenni che le donne subiscono atti di violenza fisica e ciononostante continuiamo a leggere le assurde domande che giudici e avvocati rivolgono alle vittime di stupro al solo scopo di provare la complicità di queste e di conseguenza la buona fede dei carnefici. Tutto ciò avviene, da sempre, nella totale assenza di empatia con la vittima.

Nel nostro paese, l’orrore dello stigma, del pregiudizio e del dubbio, diventano evidenti agli occhi dell’opinione pubblica col massacro di due giovani ragazze avvenuto in una villa del Circeo nel 1975. Per la prima volta si parla su giornali e tv di violenza sessuale e dell’atrocità di un fatto commesso da un branco di uomini.

Ma insieme all’immagine iconica, rimasta intatta ancora oggi, di quella violenza, dei volti del processo pubblico e dell’ottima avvocata di parte civile, Tina Lagostena Bassi, rimane lo stigma impresso su ogni donna vittima di abuso sessuale. Sebbene siano trascorsi decenni da quel fatto che ha impietrito un paese intero, ancora oggi nei casi di violenza carnale, la dinamica del dubbio è sempre la stessa.

Ricordo di un caso recente, purtroppo uno dei tanti, in cui due giovani ragazze sono state violentate da due carabinieri in servizio nella città di Firenze. Durante il processo, l’avvocato della difesa, rivolgendosi ad una delle vittime, formulò con agghiacciante freddezza queste domande:

«Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa? Indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima? In casa avevate bevande alcoliche? Si è sottoposta a una visita ginecologica sulle malattie virali? Ha un fidanzato? È la prima volta che è stata violentata in vita sua? Ha manifestato il suo non gradimento con comportamenti espliciti? Cosa diceva esattamente la sua amica quando urlava? Erano urla di parole o semplicemente urla di dolore?».

Avvocato Cristina Menichetti (difensore del carabiniere Marco Camuffo)

Cosa sono questi interrogativi se non il frutto di un pregiudizio profondo e antico, figlio di una cultura patriarcale che fatica ad abbandonarci? Che sia così ce lo dimostra anche il fatto che nel codice penale italiano, dove all’articolo 609-bis si prevede che il reato di stupro sia necessariamente collegato agli elementi della violenza, o della minaccia o dell’inganno, o dell’abuso di autorità.

In questa norma manca un elemento importante, ovvero il profilo relativo al consenso della vittima. Infatti, per la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, lo stupro è un rapporto sessuale senza consenso. L’articolo 36, paragrafo 2, della predetta Convenzione specifica che il consenso “deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”.

È quindi il consenso il punto nodale ed il discrimine tra ciò che è e ciò che non è violenza sessuale. In questa direzione si è mossa la Spagna che di recente ha introdotto la nuova legislazione contro le violenze sessuali, conosciuta come solo sì è sì“, che considera il consenso esistente solo quando è stato liberamente espresso con atti che, date le circostanze del caso, esprimono chiaramente la volontà dell’interessato.

Dunque, consenso e stigma sono i due temi su cui anche il nostro Paese dovrebbe concentrarsi al fine di superare, tramite l’intervento del legislatore, ogni retaggio culturale che ancora oggi fa sentire le donne colpevoli, sporche e complici, anziché vittime, deboli e tutelate.

Di pregiudizi, cultura del dubbio e vergogna parla la storia del romanzo di Jessica Knoll, ora diventato un film, dal titolo La ragazza più fortunata del mondo. Sia il romanzo che il film sono estremamente potenti e ci costringono a fare i conti con gli stereotipi e con un’idea ripugnante, anche se frutto di una cruda verità, secondo la quale la credibilità di una vittima dipende dalla sua classe sociale.

Per essere credute ed ascoltate, dice la protagonista Ani, è necessario non essere solo una “ragazzina povera in una scuola per ricchi”. A causa di questa convinzione quella donna, e ogni donna vittima di violenza, inizia una doppia battaglia, quella contro il carnefice, la cui responsabilità deve dimostrare agli occhi del mondo e nelle aule di un Tribunale, e quella con sé stessa. Quest’ultima battaglia è la più feroce e insidiosa perché ogni vittima deve convincersi di non essere sbagliata e di non aver meritato simili sevizie.

Per tutte queste ragioni, oltreché consigliare la lettura del libro della Knoll o la visione del film appena uscito su Netflix, consiglio a tutti di riflettere sulla quantità e qualità di stereotipi che crescendo si sono sedimentati nelle nostre menti e su quanto ognuno di noi può fare affinché un giorno, spero non troppo lontano, nemmeno una donna vittima di violenza possa sentirsi sporca e colpevole.

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